Anno scolastico 2005/2006

Liceo Scientifico Marconi di Chiavari

Lavoro della Classe IVE

 

-        IL FENOMENO DELL’EMIGRAZIONE –

“Succedeva sempre che a un certo punto uno alzava la testa…e la vedeva. E’ una cosa difficile da capire. Voglio dire…Ci stavamo in più di mille, in quella nave, tra ricconi in viaggio, e emigranti, e gente strana, e noi…Eppure c’era sempre uno, uno solo, uno che per primo…la vedeva. Magari era lì che stava mangiando o passeggiando, semplicemente sul ponte… magari era lì che si stava aggiustando i pantaloni… alzava la testa un attimo, buttava un occhio verso il mare… e la vedeva. Allora si inchiodava, lì dov’era, gli partiva il cuore a mille, e, sempre, tutte le maledette volte, giuro, sempre, si girava verso di noi, verso la nave, verso tutti, e gridava : L’America. Poi rimaneva lì, immobile come se avesse dovuto entrare in una fotografia, con la faccia di uno che l’aveva fatta lui , l’America   (...)

Quello che per primo vede l’America. Su ogni nave ce ne è uno. E non bisogna pensare che siano cose che succedono per caso, no…e nemmeno per una questione di diottrie, è il destino, quello. Quella è gente che da sempre c’ha quel momento stampato nelle vita. E quando erano bambini, tu potevi guardarli negli occhi, e se guardavi bene, già la vedevi, l’America, già lì pronta a scattare, a scivolare giù per nervi e sangue e che ne so io, fino al cervello e da lì alla lingua, fin dentro quel grido, AMERICA, c’era già, in quegli occhi di bambino tutta l’America.” [1]

 

Introduzione

1. L’emigrazione italiana

Come l’Europa in generale anche l’Italia visse il fenomeno dell’immigrazione, che ha accompagnato tutta la sua storia con momenti di particolare intensità, si calcola, infatti, che i discendenti degli emigrati, nel mondo, superino oggi il numero degli abitanti della nostra penisola.

L’emigrazione di massa, iniziò in Italia alla fine del secolo scorso, interrompendosi fra le due guerre, ma riprendendo poi con vigore nel secondo dopoguerra seguendo antiche e nuove strade.

Diverse furono le cause che determinarono il fenomeno ma soprattutto

·        La crescita della popolazione italiana grazie alle migliori condizioni di vita e alla lotta alle malattie più gravi;

·        la politica dello stato italiano con il protezionismo, che favoriva lo sviluppo delle industrie, l’aumento delle difficoltà nell’agricoltura.

L’emigrazione non riguardò solo il mezzogiorno; numerosi furono coloro che lasciarono le zone povere dell’Italia Centro Settentrionale, in particolare quella dei Veneto e dei Friuli.

La maggior parte degli emigranti italiani fu attratta dalla forte richiesta di manodopera degli USA (privilegiati dal Mezzogiorno) ma anche da alcune zone sconfinate dell’America Meridionale, come Brasile (veneti), Argentina (piemontesi), Venezuela. Altre significative mete d’emigrazione furono l’Australia e l’Africa Australe.

Rispetto ai paesi di destinazione, oltre alla vicinanza geografica o alla facilità dei trasporti, agirono da fattore d’attrazione le catene migratorie; ci si recava là dove si trovavano altri conoscenti, già stabilitivisi da tempo.

A partire erano soprattutto maschi in età lavorativa, in gran parte agricoltori e braccianti, ma anche edili, operai e artigiani, che nonostante svolgessero il loro duro lavoro non riuscivano a sostenere e quindi mantenere tutta la famiglia. Solitamente partiva solo un membro della famiglia, i maschi, ma furono numerose anche le famiglie che varcarono le Alpi e che si imbarcarono per le Americhe.

Un terzo dell’emigrazione di quel periodo divenne emigrazione permanente, cioè molte di queste persone non sono mai tornate al loro paese, poiché stabilitesi definitivamente nei nuovi paesi o perché morte lontano da casa.

L’emigrazione italiana fu determinata nel tempo da varie cause tra cui soprattutto l’alto tasso di disoccupazione, causato anche dal mancato adattamento all’avanzare della rivoluzione industriale e dal progredire di nuove tecniche di produzione a cui l’Italia faceva fatica ad abituarsi.

Altre cause della forte ondata di migrazione furono la speranza e il desiderio di migliorare la propria condizione economica e di vita, per poi, quindi, offrire anche un futuro migliore ai propri figli. I paesi che venivano scelti come luoghi di emigrazione erano l’America settentrionale e meridionale (che per i liguri erano le “Meriche”) l’Australia e in percentuale minore gli altri stati europei. La decisione di lasciare il proprio paese era una scelta straziante e spesso la figura dell’emigrante, in questi anni era vista come colui che coraggiosamente abbandonava ciò che gli era più noto e caro per tentare la fortuna in paesi lontani, di cui il più delle volte non sapeva nulla; per questo era considerato da chi rimaneva, come un eroe e una figura piena di fascino. Pochi ammettevano anche

 

Principali Paesi di Emigrazione Italiana1876-1976:

Francia

4.117.394

Stati Uniti

5.691.404

Svizzera

3.989.813

Argentina

2.969.402

Germania

2.452.587

Brasile

1.456.914

Belgio

535.031

Canada

650.358

Gran Bretagna

263.598

Australia

428.289

Altri

1.188.135

Venezuela

285.014

Totale

24.027.939

 

con loro stessi che la permanenza all’estero sarebbe stata definitiva, infatti i più speravano che la lontananza dall’Italia sarebbe stata transitoria, ma poi in effetti spesso non era così; il tempo di permanenza all’estero arrivava a superare anche periodi molto lunghi in cui chi era partito continuava a pensare a quando sarebbe rientrato al suo paese più ricco e con maggiori possibilità.

 Infatti il sogno di diventare ricchi e importanti, per poi tornare al paese nativo e riscattarsi di anni di privazioni e umiliazioni, era inseguito dalla maggior parte di coloro che migravano

Già dal 1860 ci sono dati relativi alle ondate migratorie in partenza dall’Italia che avevano come meta soprattutto l’Europa (Francia, Austria, Germania, Svizzera), alcune parti del bacino mediterraneo (come Alessandria d’Egitto e Tunisi) e l’America. Fu solo però a partire dal 1876 che si iniziò a rilevare con regolarità l’entità del flusso. L’emigrazione italiana può essere inoltre definita come un fenomeno di massa spontaneo. Fino alla fine del XIX secolo furono gli abitanti delle regioni settentrionali ad abbandonare i luoghi di origine; essi erano spesso più qualificati e si stabilivano all’estero solo per breve tempo, soprattutto in Europa. Il rapporto tese ad invertirsi tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX. Durante questo periodo, furono soprattutto gli abitanti del meridione e dell’Italia insulare ad emigrare e, questi, a differenza dei settentrionali, erano disposti a trasferirsi all’estero definitivamente.

L’emigrazione trova la sua causa fondamentale nella sovrappopolazione determinata dal forte incremento demografico, congiunto alla povertà di risorse e ad un lento ritmo di sviluppo. Più tardi, con lo sviluppo economico delle regioni settentrionali, il fenomeno interessò in prevalenza i paesi meridionali. In queste regioni, soggette ad un continuo aumento demografico (mentre nel nord il ritmo delle nascite diminuiva), l’unificazione politica doganale e i successivi provvedimenti protezionistici in favore dell’industria, localizzata nel settentrione, avevano avuto conseguenze negative. Tutto ciò, fece considerare il problema dell’emigrazione come legato alla cosiddetta “questione meridionale”. Inoltre, le regioni dell’Italia meridionale erano basate su un’economia prevalentemente agricola ed erano oppresse da una disoccupazione cronica.

Il flusso migratorio italiano è sempre stato costituito in forte proporzione da manodopera non qualificata, in particolare da addetti all’agricoltura. Tuttavia, dopo la prima guerra mondiale e soprattutto nel secondo dopoguerra, cominciarono ad assumere maggior peso i lavoratori non agricoli e, in parte, anche gli addetti a categorie professionali più elevate. Si possono inoltre individuare le regioni di origine che fanno comprendere al meglio l’inversione degli spostamenti migratori avvenuti tra il 1876 al 1887, come il Veneto, la Lombardia e il Piemonte. Inoltre, dal 1901 al 1914, si aggiunsero alle suddette regioni la Sicilia e la Campania che raggiunsero i primi posti nel flusso migratorio. Ciò nonostante il Veneto mantenne il proprio primato.

Come già evidenziato, l’emigrazione fu un notevole fenomeno di massa che, dopo essere stato inizialmente trascurato, fu preso in giusta considerazione con la legge del 30 dicembre 1888. Attraverso questa norma, si affidava alla polizia il compito di evitare che ci fossero abusi da parte di coloro che andavano alla ricerca di manodopera a basso costo. La legge, inoltre, si prefiggeva di proteggere e assistere gli emigrati. Successivamente, fu istituito il Commissariato Generale Dell’Emigrazione nel 1901.

Naturalmente, i flussi migratori ebbero riflessi sia positivi sia negativi sull’economia italiana:

Gli aspetti positivi erano principalmente rappresentati dalle rendite inviate dagli emigrati ai familiari che rimanevano in Italia. Tali rendite favorivano particolarmente l’accrescimento dell’importanza della lira, che diventò così una moneta molto forte e apprezzata sui mercati internazionali.

L’aspetto negativo era invece rappresentato dalla perdita di manodopera e lavoratori.

Nella prima metà del 1880, il flusso migratorio era principalmente diretto verso i paesi Europei, in modo particolare verso la Svizzera.

Dalla seconda metà dell’ottocento si verificò uno spostamento sempre più consistente verso l’America; inizialmente verso Argentina (1877-1890) e Brasile (1891-1897), per poi assumere sempre più consistenza verso gli Stati Uniti, soprattutto negli anni fra 1875 e il 1913.

Il più grande esodo migratorio della storia moderna è stato quello degli Italiani.

Leggiamo sul sito www.emigrati.it : “A partire dal 1861 sono state registrate più di ventiquattro milioni di partenze. Nell'arco di poco più di un secolo un numero quasi equivalente all'ammontare della popolazione al momento dell'Unità d'Italia si avventurava verso l'ignoto. Si trattò di un esodo che toccò tutte le regioni italiane. Tra il 1876 e il 1900 l'esodo interessò prevalentemente le regioni settentrionali con tre regioni che fornirono da sole il 47 per cento dell'intero contingente migratorio: il Veneto (17,9), il Friuli Venezia Giulia (16,1 per cento) e il Piemonte (12,5 per cento).Nei due decenni successivi il primato migratorio passò alle regioni meridionali. Con quasi tre milioni di persone emigrate soltanto da Calabria, Campania e Sicilia, e quasi nove milioni da tutta Italia. Gli italiani sono sempre al primo posto tra le popolazioni migranti comunitarie (1.185.700 di cui 563.000 in Germania, 252.800 in Francia e 216.000 in Belgio) seguiti da portoghesi, spagnoli e greci. Gli italiani all'estero secondo le stime del Ministero degli affari esteri erano nel 1986 5.115.747, di cui il 43 per cento nelle Americhe e il 42,9 in Europa. L'entità delle collettività di origine italiana ammonta invece a decine di milioni, comprendendo i discendenti degli immigrati nei vari paesi. Al primo posto troviamo l'Argentina con 15 milioni di persone, gli Stati Uniti con 12 milioni, il Brasile con 8 milioni, il Canada con un milione e l'Australia con 540.000 persone.”[2]

Il fenomeno non si è esaurito. Oggi gli italiani sono ancora al primo posto tra i migranti comunitari (1.185.700 di cui 563.000 in Germania, 252.800 in Francia e 216.000 in Belgio) seguiti da portoghesi, spagnoli e greci. Nel 1994 effettuarono la cancellazione anagrafica per l’estero 59.402 italiani con una prevalenza di partenza dall’Italia meridionale e insulare (57 per cento); e la Sicilia è di nuovo la prima regione con 13.615 cancellazioni.

Alla Sicilia spettano alcuni primati in campo migratorio, tra cui per il passato il maggior numero di espatri verso gli Stati Uniti. Negli anni 1890-1913 su dieci siciliani emigrati, nove si recarono negli Stati Uniti. Negli anni 1950-60 si assistette a una differenziazione delle mete migratorie dalla regione: dei 400.000 siciliani emigrati circa un 25 per cento continuò a preferire mete transoceaniche, che questa volta includevano Oceania, Africa e Asia, un 5 per cento si diresse verso i paesi non europei del bacino del Mediterraneo, più di un quarto si spostò verso le regioni industrializzate del Centro Nord italiano ed il resto verso i paesi dell’Europa del nord.

L’Italia contribuì con percentuali analoghe all’esodo verso l’Europa e verso le Americhe, ma una notevole differenza fu nelle zone di partenza: il mezzogiorno fornì il 90 per cento della propria emigrazione alle Americhe, privilegiando gli Stati Uniti. Il viaggio in treno per raggiungere i paesi dell’Europa settentrionale era non solo altrettanto lungo, ma costava più di quello sul bastimento. Dal settentrione l’emigrazione transoceanica privilegiò l’America Latina, con ulteriori suddivisioni: dal Veneto andarono prevalentemente in Brasile, i piemontesi si diressero prevalentemente in Argentina. Dalle regioni dell’Italia centrale l’emigrazione si divise equamente tra stati nordeuropei e mete transoceaniche.

I tratti caratteristici di questa emigrazione furono l’alto tasso di mascolinità (circa l’ottanta per cento nel periodo iniziale), la giovane età (la maggioranza apparteneva alla fascia di età compresa tra i quindici e i quarant’anni), e l’accentuata temporaneità (negli anni 1861-1940 solo un terzo decise di fermarsi definitivamente all’estero). Si trattò di un esodo di popolazione agraria, prevalentemente analfabeta: nel 1871 il tasso di analfabetismo nazionale era del 67,5, e nelle regioni meridionali superava spesso il 90 per cento. I contadini, agricoltori e braccianti, non furono gli unici protagonisti: artigiani, muratori e operai li accompagnarono. Tra i motivi dell’esodo oltre agli effetti della crisi agraria degli anni ottanta dell’Ottocento e l’aggravarsi delle imposte nelle campagne meridionali dopo l’unificazione del paese, sono da citare il declino dei vecchi mestieri artigiani e delle industrie domestiche. Nel Sud Italia la condizione contadina era aggravata dalla presenza di piccole proprietà insufficienti per il mantenimento e dal latifondismo.

Scriveva Gaetano Salvemini: Nel Sud si ricava dalla terra appena tanto da mangiare e da pagare le tasse… E alla prima difficoltà tutto va per aria. Se non ci fosse l’emigrazione transoceanica, avremmo ad ogni cattiva raccolta.. delle vere e proprie crisi di fame.

Ai fattori di espulsione si sommavano quelli di attrazione: mai prima di allora c’era stata tanta richiesta di manodopera in Europa, soprattutto in Francia e in Svizzera, e nelle Americhe. L’Argentina incoraggiava l’immigrazione per la colonizzazione delle sue terre, in Brasile dove dal 1888 era stata abolita la schiavitù, vi era gran richiesta di braccia per le fazendas: intere famiglie prevalentemente venete, vennero reclutate e lavorarono per i latifondisti in una sorta di regime mezzadrile. Il lavoro svolto dagli immigrati dipendeva quindi dalle offerte del mercato del lavoro nei paesi di insediamento. Negli Stati Uniti gli italiani si concentrarono nelle grandi città del Nord Est privilegiando i lavori salariati, anche in vista del rientro in Italia, e furono impiegati nelle fabbriche, nella costruzione di strade e ferrovie e nelle miniere.

Le modalità dell’emigrazione e dell’insediamento si articolarono prevalentemente attraverso catene migratorie familiari e di mestiere. Non trascurabili furono, specialmente nei primi anni del grande esodo, i numerosi episodi di sfruttamento degli emigranti che iniziava ancor prima della partenza dal momento che una forma di finanziamento del biglietto transoceanico era costituta dal credito. Dopo essere stati taglieggiati e raggirati in patria dagli agenti di emigrazione una volta giunti in America non trovarono una situazione migliore: da un’inchiesta del 1897 a Chicago risultò che il 22 per cento degli immigrati italiani lavorava per un padrone; ciò implicava il versamento di una tangente per ottenere un lavoro e l’abitazione e l’obbligo di acquistare le merci in uno spaccio indicato.

Gli italiani furono in questi anni oggetto di numerosi episodi di xenofobia sia in Europa che negli Stati Uniti. I più noti sono quelli di Aigues Mortes, in Francia, dove nel 1893 morirono nove italiani per mano di una folla inferocita che colse un banale pretesto per vendicarsi della disponibilità degli italiani ad accettare paghe più basse dei lavoratori francesi. Negli Stati Uniti, a New Orleans, nel 1901 undici siciliani vennero linciati con l’accusa di appartenere alla Mafia. Sempre in America i calabresi e i siciliani vennero descritti da una commissione parlamentare, istituita nel 1911 per analizzare il fenomeno della nuova immigrazione, come coloro che davano un contributo fondamentale alla crescita del fenomeno della delinquenza nelle città americane. Nei primi decenni di immigrazione la statistiche censivano separatamente italiani del Nord e del Sud, attribuendo i primi a un’ipotetica razza "celtica" ed i secondi alla razza mediterranea; la voce del censimento che riguardava gli italiani inserì i siciliani sotto la voce non white, perché di pelle scura. Le leggi sull’immigrazione promulgate durante gli anni venti rifletterono il pregiudizio antmeridionale: di fatto posero fine all’immigrazione italiana negli Stati Uniti, stabilendo delle quote per ogni nazionalità, discriminarono di fatto tra le popolazioni del nord Europa e quelle dell’Europa Sud Orientale.

Due guerre mondiali e il fascismo limitarono fortemente il flusso migratorio italiano che riprese però nel dopoguerra, inserendo nuove mete come il Canada e l’Australia, accanto alle solite Stati Uniti, Argentina ed Europa. Dal 1945 i valori medi annui dell’esodo toccarono le trecentomila unità. Mentre nel decennio 1946-55 più del cinquanta per cento privilegiò mete extraeuropee, tra il 1961 e il 1965 l’85 per cento degli espatri avvenne verso paesi europei. A partire dagli anni sessanta l’emigrazione - quasi quattro milioni di persone, di cui ben uno dalla Sicilia - avvenne quasi esclusivamente dalle regioni meridionali e si orientò verso le aree industrializzate dell’Europa settentrionale e nel triangolo industriale italiano, in cui si riversarono circa due milioni di immigrati.                                           

 

1.1  L'emigrazione italiana negli Stati Uniti d’America:

Amy Bernardy, è definita la scopritrice dell'emigrazione italiana in America. Fu sostenitrice di quella che è stata definita "l’impostazione nazionalista", che considerava "l’emigrante in continuità di rapporto con la madrepatria" secondo una visione della comunità italiana non ristretta ai confini statali. Si distinse peraltro per una lettura non meramente economica delle potenzialità delle comunità italiane nel mondo - strumento cioè di conquista pacifica di nuovi mercati - ma perché vedeva gli emigranti italiani come potenziali portavoce della cultura italiana nel mondo, se sostenuti da uno stato forte che li tutelasse ancor prima del momento della partenza e ne seguisse le prime fasi dell’insediamento. Le sue indagini contribuirono al rafforzamento della tutela degli emigrati italiani, che trovò espressione nelle leggi sull’emigrazione del 1912 e 1915 e oggi consentono, oltreché di esaminare le implicazioni che le leggi avevano sulla vita dei soggetti che investivano, di seguire le comunità italiane nelle prime fasi dell’insediamento.

Amy A. Bernardy era la cosmopolita figlia di un console americano a Firenze, italiana per via di madre. Nata a Firenze nel 1880, si laureò in lettere nel 1901. Compì numerosi viaggi di studio in Europa e nel 1903 ottenne un incarico di lettrice di italiano presso lo Smith College di cui fu direttrice dal 1903 al 1910. Negli Stati Uniti iniziò anche l'attività di giornalista, per riviste italiane e statunitensi, dedicandosi all'analisi della condizione degli immigrati italiani. Era stata già quindi testimone diretta della vita nelle colonie italiane in America quando, nel 1908, il Commissariato Generale dell'emigrazione, organo del Ministero degli Affari esteri del governo italiano, le affidò l'incarico di condurre un'inchiesta sulle condizioni delle donne e dei fanciulli italiani nel settore nordoccidentale degli Stati Uniti, ricerca che, negli anni immediatamente successivi, venne estesa agli stati del Centro e dell'Ovest.

Ella non si limitò ad occuparsi delle condizioni di vita dei propri connazionali negli Stati Uniti, ma inserì le sue analisi sul fenomeno migratorio italiano all'interno di una più vasta prospettiva sulle potenzialità che la colonia emigrata poteva avere per l'Italia, vedendo negli emigranti gli inconsapevoli portavoce del proprio paese. Secondo quest'ottica fu sostenitrice di politiche migratorie non disinteressate o miranti esclusivamente alla tutela dei soggetti, ma volte al ritorno di immagine per l'Italia. Acuta osservatrice, associava a un distacco di classe nei confronti dei connazionali emigrati, simpatie nazionaliste. Nell’acceso dibattito italiano di quegli anni sugli effetti dell’esodo migratorio essa si schierò tra coloro che vedevano nell'emigrazione una perdita per l'Italia.

La "razza italiana", anche se rappresentata dai soggetti più poveri, continua a manifestare, secondo Bernardy, tratti di nobiltà. Più volte nei suoi testi descrivendo gli immigrati italiani scorge in bambini sporchi e malvestiti uno sguardo scintillante che testimonia l’intelligenza della razza o riscontra fisionomie, frutto di antica civiltà.

Fra il 1880 e il 1915 approdano negli Stati Uniti quattro milioni di italiani, su 9 milioni circa di emigranti che scelsero di attraversare l'Oceano verso le Americhe. Le cifre non tengono conto del gran numero di persone che rientrò in Italia: una quota considerevole ( 50/60%) nel periodo 1900-1914. Circa il settanta per cento proveniva dal Meridione, anche se fra il 1876 ed il 1900 la maggior parte degli emigrati era del Nord Italia con il quarantacinque per cento composto solo da Veneto, Friuli Venezia Giulia e Piemonte.

Le motivazioni che spinsero masse di milioni di Meridionali ad emigrare furono molteplici. Durante l'invasione Piemontese, operata senza dichiarazione di guerra, del Regno delle due Sicilie, i macchinari delle fabbriche, non dimentichiamo che Napoli era allora una città all'avanguardia in campo industriale, furono portati al Nord dove in seguito sorsero le industrie del Piemonte, della Lombardia e della Liguria. Le popolazioni del Meridione, devastato dalle guerra con circa un milione di morti, da cataclismi naturali (il terremoto del 1908 con l'onda di marea nello Stretto di Messina uccise più di 100,000 persone nella sola città di Messina) depredato dall'esercito, dissanguato dal potere ancora di stampo feudale, non ebbero altra alternativa che migrare in massa. Il sistema feudale, ancora perfettamente efficiente, permetteva che la proprietà terriera ereditaria determinasse il potere politico ed economico, lo status sociale, di ogni individuo. In questo modo, le classi povere non ebbero praticamente alcuna possibilità di migliorare la propria condizione.  Da aggiungere ai motivi dell'esodo la crisi agraria dal 1880 in poi, successivamente l'aggravarsi delle imposte nelle campagne meridionali dopo l'unificazione del paese, il declino dei vecchi mestieri artigiani, delle industrie domestiche, la crisi della piccola proprietà e delle aziende montane, delle manifatture rurali. Gli Stati Uniti dal 1880 aprirono le porte all'immigrazione nel pieno dell'avvio del loro sviluppo capitalistico; le navi portavano merci in Europa e ritornavano cariche di emigranti. I costi delle navi per l'America erano inferiori a quelli dei treni per il Nord Europa, per questo milioni di persone scelsero di attraversare l'Oceano. L'arrivo in America era caratterizzato dal trauma dei controlli medici e amministrativi durissimi, specialmente ad Ellis Island, l'Isola delle Lacrime. Nel Museo dell'Emigrazione a New York ci sono ancora le valigie piene di suppellettili e di povero abbigliamento delle persone che reimbarcate per l'Italia, nella disperazione si buttavano nelle acque gelide della baia andando quasi sempre incontro alla morte.

Se i bastimenti erano l'unico mezzo per raggiungere le Americhe, con viaggi che duravano quaranta giorni a cavallo fra l'Ottocento ed il Novecento, dagli anni quaranta in poi è il treno il mezzo di trasporto e la valigia di cartone il simbolo di un ulteriore massiccio esodo verso l'Europa; conseguentemente alla sempre grave condizione dell'economia italiana, alla carenza in Italia di materie prime, soprattutto verso le miniere dei vari paesi europei. Milioni di persone, si sparsero per l'Europa alla ricerca di un presente e di un futuro migliore; molti di loro trovarono la morte nelle miniere del Bois du Cazier a Marcinelle in Belgio, schiacciati dal ghiacciaio di Allalin ai cantieri di Mattmark, o cadendo sul lavoro in altre disgrazie. Molti ebbero nonostante le difficoltà, l'unica possibilità di assicurare un futuro ai loro figli. Sono milioni i discendenti italiani con altre cittadinanze europee.

L’iconografia dell’epoca che riguarda i nostri emigranti del Nord America, ci mostra il quadro penoso di una massa di gente vestita e calzata alla meno peggio con le povere valigie di cartone piene di sogni e di rimpianti e che appena scesa dal “piroscafo nero di vapore”, si sentiva anche più sola e indifesa e confondeva distanze e luoghi.

La maggior parte si sottometteranno sempre e di buon grado al rigore delle leggi del nuovo paese, pagando spesso, come negli Stati Uniti, per il rigorismo di un puritanesimo e protestantesimo esasperato che al di là della facciata democratica e dello stentato perbenismo filantropico e altruistico, covava a volte una profonda avversione ed intolleranza per i cattolici e per tutti coloro che avevano il grave torto di portare i baffi e di non avere i capelli biondi e gli occhi chiari; però non ci si può dimenticare che con l’emigrazione degli italiani negli Stati Uniti si portò anche la mafia. Ma niente e nessuno potrà togliere loro la voglia di lavorare e di dedicarsi alle più ardite opere di colonizzazione. Nel 1856 la California divenne stato dell’Unione e subito dopo la costruzione della ferrovia tra San Francisco e l’Est che diede inizio al suo sviluppo economico, la febbre dell’oro si spense e gran parte degli emigrati si dedicarono all’agricoltura e all’allevamento del bestiame.

La piccola colonia italiana di San Francisco ha questa origine ed è stata fondata da genovesi. I genitori di Amedeo Giannini, partiti da Favale, sono fra questi.

Nel censimento del 1850, solo 3045 italiani risultavano residenti in tutto il territorio degli Stati Uniti. Tuttavia, proprio nel 1850, New York cominciò a diventare luogo d’esilio per i patrioti italiani usciti dalle prigioni austriache e che si rassegnarono a vivere una malinconica e tranquilla esistenza insegnando l’italiano, mentre altri, più dinamici e spericolati, si buttarono nell’industria, aprirono uffici legali e si arruolarono nell’esercito unionista come il generale Luigi Palma di Casnola al quale si deve la fondazione del Metropolitan Museum.

Il modesto emigrante, senz’alcuna prospettiva di lavoro, viveva invece nei bassifondi di New York, Boston e Filadelfia, adattandosi ai mestieri più umili: venditore ambulante, suonatore girovago, lustra-scarpe, portiere, spazzino e facchino. I salari erano bassi, le condizioni di lavoro spesso pericolose e la mortalità infantile molto elevata mentre il superaffollamento, in alloggi malsani, scatenava ribellioni violentissime.

Dopo il 1880 il numero degli italiani che ogni anno entrava nedli Stati Uniti salì da 12.534 nel 1880 a 100.136 nel 1900. Con l’aumento di questa ondata migratoria, anche la presenza ligure diventa più consistente e muta caratteristiche. Concreti e pratici per natura, siano essi commercianti, pescatori o contadini sono comunque sempre ed in ogni luogo impegnati a “far soldi”. Le “città dell’oro” erano state da tempo abbandonate ma gli empori dei rivieraschi Trabucco e Ginocchio, a Mother Lode, continuavano ad essere in piena attività. Non lontano da Los Angeles l’enorme fattoria di Alessandro Repetto, genovese, diventa la città di Montebello. Angelo Noce, nato a Coreglia nel 1847, fonda un’industria grafica a Denver. A San Francisco molti pescatori liguri provenienti per lo più da Riva Trigoso, si mettono a coltivare vigne, a commerciare in vini e aprire negozi. Ancor oggi a Stockton, in California, esiste una panetteria, dichiarata monumento civico, gestita da certi parenti di emigranti di Castiglione Chiavarese che mantiene il vecchio nome di “Genova” e il disegno del tricolore sulla facciata.

Nel 1881, Andrea Sbarboro, genovese, fonda una cooperativa agricola sempre in California e, nel 1899, a San Francisco la Banca Italo Americana viane presto eclissata dalla Banca of  Italy di un altro ligure: Amedeo Giannini, originario di Favale di Malvaro.

 

1.2 L’emigrazione italiana in Sud America

Riferendoci sempre alla metà del secolo scorso, l’America del Sud si presenta ricchissima, vastissima e molto fertile e i nostri, abituati in patria ad un lavoro ingrato e faticosissimo su pochi metri di terreno sassoso ed arido, in poco tempo raggiungono quel benessere che avevano sempre sognato. Ne è conferma la rimessa di sei milioni e mezzo di lire che gli emigranti della Fontanabuona, installati nel Sud America, fecero nel 1913 al Banco di Chiavari, quando il capitale del Banco era di due milioni.

Un cronista e inviato speciale dell’epoca scriveva che i terreni del Sud America, se le annate erano buone, potevano fruttare in due o tre anni tanto da pagare innanzi tutto utensili e bestiame e quindi il terreno da coltivare in proprio, accresciuto successivamente con nuovi acquisti. “Fatto ciò, continuava il giornalista, i primi danno a mezzadria ai nuovi venuti come loro fu fatto e così via. E quel che agevola un tale processo è il prezzo mite e la fecondità giovanile del terreno, netto di sassi e aperto al sole da ogni lato, la gravezza minima dell’imposta, la minor cura che richiedono gli animali, lasciati liberi, e l’impulso nuovo di attività che viene anche alle più pigre nature dal trovarsi là in un continente sconosciuto a cominciare una lotta nuova per l’esistenza, davanti a mille esempi di rapida fortuna, in mezzo ad una società impaziente di conquistare una vasta libertà di spazio e di vita che rammenta l’infanzia del mondo.” Per questo l’Argentina è lo Stato che ospita le colonie più fiorenti degli italiani, che trovano, in quelle sterminate estensioni, la ricchezza a portata di mano.

In Perù, Cile, Argentina, Brasile, Equador, i Liguri diventano commercianti, pescatori e contadini mentre si sviluppa, per mare, l’attività mercantile grazie alla quale, al di là dell’oceano, si vengono a conoscere i prodotti dell’artigianato ligure, le pietre pregiate, il legname e le famose lastre di ardesia della Fontanabuona.

In Argentina, specilmente nelle grandi città come Buenos Aires, i nostri conterranei aprono piccoli negozi, chiamati “Almacen”, stipati all’inverosimile di prodotti di ogni genere.

Un certo signor Rocca, tornato a Chiavari per trascorrere la sua vecchiaia e che fu proprietario di una di queste botteghe, racconta che in esse si riunivano compaesani per discutere, parlare della patria lontana, passare ore in allegria, magari giocando a bocce alla maniera ligure, e consolidare amicizie e legami che diventavano indissolubili.

Dal negozietto o dal banchetto di frutta e verdura piazzato sull’angolo di strada, si passa al commercio all’ingrosso e quindi all’industria.

Tra i tanti industriali e commercianti che si sono maggiormente affermati, vogliamo ricordare i Canepa, originari di Carasco, diventati i più grandi esportatori di frutta e produttori di vino dal Cile.

Sempre nel mondo industriale i Lubrano, provenienti da Gattorna, proprietari del più grande albergo nel centro di Santiago e fornitori di caffè a tutto il Cile. I Norero, originari di San Colombano, che insieme ad un ramo dei Segale sono proprietari di industrie alimentari in Equador. A Lima troviamo i Battilana, provenienti dalla Fontanabuona, industriali di pesce inscatolato, i Zunino proprietari di aziende agricole e coltivazioni di caffè, i Nicolini che hanno fabbriche di pasta, Mario Canepa che insieme ai Tealdo, originari di Masso, commerciano in argenteria, esportano caffè e importano macchinari, i Samengo, originari di Santa Giulia, noti commercianti, i Cogorno, oriundi del paese di cui portano il nome, proprietari di un grosso pastificio. Sempre a Lima, a metà del secolo scorso, i Puccio, banchieri e commercianti, avevano acquistato un tale potere ed una tale fama che gli assegni della loro banca davano una garanzia maggiore della stessa moneta peruviana. La bella villa abitata a tutt’oggi dai Norero in corso Millo a Chiavacci, dove era stata sistemata una collezione di reperti della civiltà precolombiana culturalmente molto importante e senz’altro una delle più complete esistenti oggi in Liguria, era stata costruita da loro. Sempre proveniente dall’entroterra chiavarese, vogliamo ricordare gli Spinetti di Mezzanego, fondatori del mercato di Buenos Aires, che hanno dimostrato sempre un grande attaccamento al paese di origine tanto da devolvere al Comune di Prati di Mezzanego una notevole somma. Sempre a Buenos Aires, oltre ai Sanguineti che insieme ad altri soci hanno fondato il “Nuevo Banco Italiano”, il nome degli Ottone viene ricordato spesso e volentieri, essendo stati i primi a far conoscere l’olio di oliva ligure in tutta l’Argentina.

 

1   1.3   Fascismo ed emigrazione

Il flusso migratorio che dall’Italia partiva alla volta degli Stati Uniti, rimase per molti anni di consistenza cospicua. Il continuo ingresso di nuovi emigrati esasperò i rapporti fra Stati Uniti e Italia, tanto che questi misero dei limiti ferrei per controllare l’ondata emigratoria. Uno dei paesi colpiti dalle limitazioni imposte fu proprio l’Italia che cercò, all’inizio, di ottenere un aumento del numero di permessi d’ingresso annui ma, ogni agevolazione, le fu negata. Fu per questo motivo che Mussolini decise di intraprendere la strada del colonialismo. Fra Italia e Stati Uniti, durante il periodo fascista, il principale motivo di attrito fu proprio l’emigrazione. In origine, il problema era rappresentato dalla riduzione dei contingenti di immigrati ammessi negli Stati Uniti che aveva contribuito ad aumentare la crisi economica italiana. Gli Stati Uniti, attraverso questo provvedimento, non favorivano più l’equilibrio fra popolazione e risorse in Italia.

Ulteriore causa di discordia fu rappresentata dall’opposizione di Mussolini ad una naturalizzazione degli emigrati italiani negli Stati Uniti che, al contrario, volevano un inserimento completo dei gruppi etnici.

Furono due le fasi che caratterizzarono l’emigrazione italiana del primo novecento: si passò da una fase “sociale” di inizio ‘900, con l’istituzione del commissariato dell’emigrazione, ad una fase prettamente politica con l’avvento di Mussolini. L’intento della “filosofia fascista” era quello di creare colonie italiane all’estero. Nel progetto di Mussolini c’era l’effettivo intento di creare una compatta forza politica che fosse manovrabile da Roma e finalizzata agli interessi della madre patria. Infatti, nel 1921, già Rolandi Ricci, ambasciatore italiano a Washington, si era proclamato come guardiano della colonia italiana in America. Le dichiarazioni di Ricci costrinsero per tanto il generale Diaz, nell’intento di sedare i malumori dell’opinione pubblica statunitense, ad esortare gli italiani a rimanere tali nel cuore ma, al tempo stesso, essere leali cittadini americani.

Ciò nonostante, immediatamente dopo la presa del potere, Mussolini affermava che gli emigrati dovevano essere mezzo di propaganda delle idee e dei prodotti italiani e, l’emigrazione, parte integrante della politica estera. In funzione di questa concezione politica fu abolito il commissariato all’emigrazione perché fosse accorpato al ministero degli esteri e, nel 1927 soppresso completamente e sostituito dalla direzione generale degli italiani all’estero (sempre nell’ambito dello stesso ministero). Fu attraverso l’Immigration Act del 1921 che il governo americano inserì le prime misure restrittive e quest’emanazione coincise con il clima di risentimento e di frustrazione nei confronti di Mussolini.

 Nell’immediato dopoguerra, molti dei provvedimenti, che erano stati varati durante il periodo bellico per concentrare al massimo le forze necessarie alla difesa del paese, erano stati soppressi dal governo. Quest'ultimo, allarmato dagli scioperi e dalla crescente disoccupazione, aveva favorito al massimo l’emigrazione.

 

 

2. Liguri: marinai ed emigranti

Il problema dell’emigrazione ligure si manifesta in tutta la sua più drammatica realtà nell’Italia appena unita allorchè l’eterna miseria e il senso di sfiducia nei confronti dello Stato “che scema il pane con le tasse e toglie i figli con la leva”, alimentano, specialmente nel mondo contadino intriso di fame e di rassegnazione, il miraggio di un altro mondo, di un’altra vita. L’altro mondo è l’America dove si stanno realizzando i principi dell’uguaglianza civile, delle leggi democratiche, della libertà d’opinione, di stampa e di associazione.

Il fenomeno emigrazione si presenta dunque sotto due particolari aspetti: come evento socio-economico e come espressione di una penosa realtà che tocca profondamente, modificandoli a volte, i sentimenti di tutti coloro che espatriano e di quelli che vivono in modo traumatizzante l’allontanamento dai propri cari.

Ma la spinta che portò gli italiani ad andare esuli per il mondo fu dovuta a situazioni di precarietà e di miseria tanto che spesso e volentieri l’emigrazione era sollecitata e consigliata dagli stessi funzionari governativi, per i Liguri, l’andare oltre oceano, ha un valore tutto diverso e particolare.

I Liguri “vanno per mare” per tradizione, per abitudine, per scelta, per lavoro. Una vera e propria vocazione.

Infatti quando nel 1492 Colombo scoprirà il nuovo continente, saranno proprio i Liguri, nonostante l’opposizione degli Spagnoli, i primi a seguirlo e a varcare l’Oceano per raggiungere l’opposta sponda dove le loro attive presenze si faranno via via sempre più numerose fino al giorno in cui andare in America diventa un fatto stagionale, sia per uomini che per donne, e costituisce un’impresa del tutto naturale, considerata meno rischiosa che partire, per esempio, per il meridione d’Italia.

Tra gli emigranti provenienti dalle varie regioni italiane, vi era, nel secolo scorso, chi aveva vissuto fino ad allora in una estrema arretratezza in tuguri squallidi e in condizioni addirittura primitive. In confronto a loro, i vari Garibaldi, Rocca, Sturla, Cuneo, Noziglia, Ghio, che scendono dalle vallate chiavaresi per imbarcarsi per l’America, presentano le caratteristiche dell’emigrante-tipo, che era solitamente un contadino povero ma non abbrutito, emarginato ma non isolato, che aveva la coscienza della propria inferiorità economica e forza bastante per tentare di cambiare, sempre rimanendo saldamente ancorati, anche nel nuovo mondo, alla famiglia e alla loro cultura, ai loro buoni e retti principi morali, ai loro usi, al loro dialetto, alle loro abitudini, alla loro cucina frugale.

I liguri vengono considerati i pionieri dell’emigrazione e lo sono davvero stati, tuttavia non sembra ci sia stato un atto di drammatico sradicamento come invece era accaduto per il resto dell’Italia. Una simile forma di originalità è dovuta ai tempi, ai modi e ai protagonisti dell’esodo. E’ importante sottolineare la precocità e la diffusione addirittura di una cultura migratoria fra tutta la sua popolazione, anche di quella non subito coinvolta nell’esodo definitivo. La stessa familiarità con la vita di mare comportava, per chi partiva e per chi restava una familiarità con la lontananza. Il distacco tra familiari era una componente della vita quotidiana. La stessa cucina regionale è per lo più composta da cibi che si possono consumare freddi ed anche dopo qualche giorno, cibi per uomini che non si sapeva mai quando arrivavano.

Il fatto migratorio è dunque un elemento strutturale della storia della Liguria che è forse una delle regioni in cui ciò appare evidente addirittura nelle pietre e nelle case: intere città e piccoli paesi sono stati costruiti e ricostruiti col denaro degli emigranti che per lo più erano marinai e mercanti.

Ad essi si aggiunsero, nella prima metà del XIX secolo, esponenti politici, liberali, o mazziniani, i quali, anche avendo lo scopo di promuovere, sia pur da lontano, la trasformazione del regime politico in patria, affrontarono con mezzi e cultura adeguati, fattori che ne spianarono la via, l’inserimento nella nuova società, dove spesso poi decisero di fermarsi.

La scelta degli sbocchi, da parte di questi gruppi era certamente legata al mezzo di trasporto ad essi più familiare e funzionale e pertanto furono privilegiate mete raggiungibili via mare.

Tale forma di emigrazione si consolidò a tal punto da dare addirittura l’impronta decisiva a periodi della storia locale, come nel caso argentino, in cui gli storici hanno appunto individuato una fase “ligure”.

In questo contesto i singoli individui ed i gruppi poi riuscirono spesso a riprodurre nelle località d’arrivo le professioni esercitate prima in patria. Così li troviamo impegnati nel settore della navigazione nella duplice forma del trasporto commerciale e della pesca, in tutti i traffici portuali connessi così come nelle attività di supporto a terra. Anche i contadini arrivati presto talvolta, nel mondo nuovo, riuscirono non solo ad occupare il settore della produzione e soprattutto della commercializzazione ortofrutticola, ma anche a farlo in forme quasi monopolistiche, come, attorno alla metà del XIX secolo, in California.

In Liguria esisteva anche un altro tipo di emigrazione, cioè quella stagionale e quella mendica.

Alcune figure caratteristiche della migrazione mendica erano i “birbi”, che elemosinavano mentendo circa il loro ruolo istituzionale (alcuni cercavano addirittura di vendere lettere che dicevano fossero state scritte da Gesù Cristo in persona, altri invece raccoglievano soldi per il riscatto degli schiavi) e i suonatori d’organetto.

I contadini delle valli del Levante invece si rivolgevano verso la pianura padana. In marzo e aprile andavano a tagliare la legna, coltivavano la terra e le risaie, vi raccoglievano le foglie di gelso e in giugno e luglio tornavano per il grano, mentre in autunno andavano a vendemmiare, a raccogliere le noci e a preparare il terreno. Andavano anche a lavorare occasionalmente come minatori, sterratori o facchini oppure qualche rara volta portavano dietro il loro mestiere.

Per quanto riguarda la migrazione periodica, dal 1828 al 1837, escludendo i marinai, si contano 38182 partiti e 37889 ritornati.

Dell’emigrazione definitiva abbiamo la misurazione statistica solo dal 1876 in poi.

I gruppi protagonisti dell’esodo se all’inizio erano prevalentemente formati da marinai e commercianti poi, via via, furono più variamente composti ma condizionati dall’entrata massiccia dei contadini (nel circondario di Chiavari costituivano il 59,48 % degli emigranti).

Verso la metà del secolo si era già fatta sentire, nelle valli interne, la crisi della produzione manifatturiera a domicilio, tanto che negli anni ’70 la perdita d’identità degli artigiani sarebbe stata tale che, in pratica, avrebbe determinato la scomparsa dai registri anagrafici dei comuni dell’entroterra le definizioni delle professioni artigianali più diffuse nelle vallate, cioè tessitore, tessitrice e filatrice, sostituiti dalla definizione generica di “contadino” e “contadina”.

Tale fenomeno fu solo in parte il prodotto della concorrenza della fabbrica accentrata che si stava diffondendo sulla costa; la causa più importante sembra essere invece l’impoverimento diffuso del quadro socio-economico complessivo di riferimento per la commercializzazione del prodotto; in subordine si può anche rilevare la mancanza di un consolidato sistema di commercianti imprenditori, per l’entroterra, che permettesse il permanere di certe caratteristiche professionali. Cadendo il delicato equilibrio tra attività agricola, artigianato ed emigrazione stagionale, il risultato fu la spinta ad una rinnovata agrarizzazione di tutti i componenti dell’unità familiare, i quali, in mancanza di un miglioramento di sistemi e tecniche colturali, non potevano che trovarsi in difficoltà sempre crescenti ed erano quindi indotti ad emigrare sempre più in modo permanente.

La crisi di queste valli fu soprattutto legata alla caduta delle dogane interne ed alle scarse capacità di resistenza alla concorrenza dei prodotti meridionali, vino ed olio, così come ad annate sfavorevoli per i raccolti. In Liguria bastò l’unità d’Italia a creare gravi scompensi negli equilibri preindustriali. La stessa costruzione della ferrovia costiera, ultimata nel 1868, determinò un altro elemento di arretratezza per queste vallate, che rimasero in tal modo sempre più escluse dalla corrente dei traffici, che invece si veniva a concentrare sulla costa.

Quando queste cause si incontrarono con quell’atteggiamento già individuato che consisteva nella disposizione psicologica  ad andare via, a causa della secolare convivenza con l’emigrazione in tutte le sue forme, anche dalle sue vallate il deflusso assunse le caratteristiche dell’esodo di massa.

Già a metà secolo l’emigrazione ligure era cambiata nella sua composizione, mentre non lo era ancora del tutto nelle sue destinazioni, che indicavano ancora i forti legami con le vie aperte nell’antico e recente passato, cioè con l’America Latina.

L’attrazione esercitata dall’America del Sud aveva dunque già raggiunto, per i contadini liguri, livelli da pre-grande esodo ed era legata alle facilitazioni per il viaggio ed alle promesse di concessioni di terre che i governi di là fecero ai contadini. L’inserimento non si prospettava drammatico anche perché la lingua non era poi così diversa; addirittura, col tempo, in America Latina, l’influenza linguistica ligure si sarebbe fatta sentire nelle parlate locali dello spagnolo.

 

2.1 L’emigrazione verso la Corsica:

Durante i primi anni del settecento il Governo Genovese cominciò ad interessarsi ad un paesino chiamato Sopralacroce, ai tempi decisamente più popoloso, i cui abitanti da tempo sopperivano alla scarsità di terreno coltivabile e alla mancanza di altre forme di sostentamento spostandosi nel Ducato di Parma e di lì facendo rotta verso il nord Europa, dove potevano vivere di birba per gran parte dell’anno, lasciando a casa mogli e figli. Non si sa chi avvisò il Governo della Repubblica di Genova, nel luglio del 1713 che il paesino andava spopolando e che mancava terreno da coltivare. Si sa solo che una nota anonima, di poche righe, inviata a Genova attirò l’attenzione del Governo. La Corsica, allora, faceva parte dei domini della Repubblica, e certo al Governo Genovese deve aver fatto molto gola la possibilità di risolvere due dei suoi più profondi problemi con una sola, all’apparenza semplice, soluzione: spostare un paesello di circa mille abitanti sull’isola, sfruttando così manodopera pressoché inutilizzata da molto tempo per via delle terre scarse e allo stesso tempo integrando alla popolazione ribelle e piena di spirito d’appartenenza, un gruppo considerevole di coloni lavoratori che dessero il buon esempio. Da Sopralacroce partì un numero considerevole di famiglie, nel gennaio 1714, lista ancora reperibile presso il piccolo archivio parrocchiale, purtroppo l’impresa fallì e nel giro di pochi anni la comunità trapiantata in Corsica nacque e morì. Il primo semestre del 1715 per i coloni fu un periodo sostanzialmente positivo, anche se la comparsa di una malattia nuova e la mancanza di denaro per comprare materiale e generi alimentari cominciarono a disturbare gli emigrati. Inizialmente la colonia progredisce, sembra che i coloni siano soddisfatti del lavoro e delle condizioni tutto sommato migliori di quelle di partenza, ma nel secondo semestre del ’15 la situazione precipita fino al punto effettivo i abbandono del progetto, perché problemi vecchi e nuovi si fanno sempre più pesanti e sembrano essere fuori controllo. Insofferenze e invidie verso figure come quella del parroco, mandato dal Governo Genovese per mantenere l’ambiente pacifico e per amministrare la colonia, vengono scavalcate da un’epidemia che raggiunge e mette in ginocchio più della metà della popolazione. La maggior parte dei coloni si rifiuta di andare all’ospedale di Ajaccio e così, scrive il parroco stesso, “tanti passano ad altra vita et ogni giorno ne muore qualcuno”. Si arriva così alla conclusione di questa breve vicenda stesa tra Liguria e Corsica, in cui il Governo di Genova invia a Coti Alessandro Pallavicino, Commissario destinato del Regno per la proibizione generale dell’armi da fuoco, il quale informa Genova con un resoconto, l’ultimo prima del ritorno: “Ben sapranno le vostre Signorie che la famiglie inviate ad abitar detta colonia erano composte d’anime 475, eppure in oggi non se ne contano che solo 150 “.

Basta però guardare una cartina dell’attuale Corsica per rendersi conto di come qualche segno del loro passaggio permanga, notiamo infatti la foresta di Chiavari, il porto di Chiavari e Coti-Chiavari.

Partirono nel gennaio del 1714, dicevamo, per poi tornare in patria in ogni modo possibile. Alcuni fuggirono per tornare a Sopralacroce, alcuni altri furono sepolti in terra corsa, quelli che rimasero furono rimpatriati tra la fine del 1715 e l’inizio del 1716 e ancora un ultimo gruppo, formato da 66 persone, tornò in paese per la fine di marzo dell’anno 1716.

 

2.2 L’emigrazione dai comuni del genovesato

Nella valle Polcevera sono compresi i comuni di Ceranesi, Campomorone, Mignanego, Serra Riccò e Sant’Olcese. In questa valle i tassi di emigrazione sono molto contenuti: in generale sono al di sotto del 4 per mille. Solo Campomorone e Mignanego, con 6.4 e 6.2 fanno rilevare tassi più elevati, mentre altri superano solo di poco la soglia del 4. In compenso i primi anni del secolo registrano il maggior tasso di emigrazione.

Nella valle Bisagno l’emigrazione rimane al di sotto del 4 per mille nel primo e nel terzo censimento[3], mentre all’inizio del secolo sale al 14.1 a Davagna e al 10.6 a Bargagli.

Più articolata e variabile nel corso degli anni si presenta la situazione della valle dello Scrivia. Come era prevedibile sono i comuni dell’alta valle a far registrare intensi fenomeni di emigrazione: Valbrevenna, Vobbia e Isola del Cantone hanno rispettivamente questi tassi: Valbrevenna 14.5 per mille, Vobbia 19.8 e 11.1, Isola del Cantone 18.8 e 11.8.

Ad un livello a poco inferiore si trovano Crocefieschi e Savignone. I restanti comuni hanno avuto tassi generalmente non superiori al 9 per mille.

La val Trebbia raggiunge tassi di emigrazioni elevatissimi. La punta toccata dal comune di Fascia con oltre il 50 per mille nel secondo periodo, seguito da Rondanina, Rovegno e Gorreto. Tutti gli altri comuni sono comunque al di sopra del 18, mentre negli altri due periodi rimangono stabilmente al di sopra del 9, con eccezione di Montebruno e Torriglia nel quindicennio 1886-1900 (6.3 e 4 rispettivamente).

La valle dell’Aveto corrisponde sicuramente a una delle aree della Provincia più toccante dell’emigrazione insieme alla Trebbia e alla Fontanabuona. Santo Stefano d’Aveto infatti scende al di sotto del 17 per mille solo a partire dal terzo periodo. Nelle valli dello Sturla e del Graveglia è da notare il caso del comune di Né che mantiene un tasso di emigrazione sempre superiore al 16 per mille, con una punta del 23.2 nel periodo centrale. Anche Mezzanego supera il 16 nel primo periodo, mentre Borzonasca arriva al 14.7.

Nella valle del Petronio i maggiori fenomeni di emigrazione si riscontrano nei comuni di Casarza Ligure e Castiglione Chiavarese che registrano tassi oltre il 17 per mille nel periodo centrale e compresi fra il 12 e il 16 negli altri due periodi. Meno elevati i valori per Sestri Levante con tassi compresi fra il 7.6 e il 10.9.

Nella Riviera da Bogliasco a Moneglia il tasso medio è collegabile nella fascia 8-12 per mille, con una generale diminuzione del fenomeno nell’ultimo periodo. Da notare il caso di tre comuni che si distaccano dalla media: Lavagna con il 16.4, Moneglia con il 14.1 e Recco con il 12.2.

La valle della Fontanabuona è una delle zone più esposte ai fenomeni dell’emigrazione. I comuni di Neurone e Favale di Malvaro si mantengono nel 1896, periodo in cui praticamente tutti i comuni della valle raggiungono valori del 16. Inoltre anche nel decennio 1911-1920 presentano ancora tassi superiori al 16 (con i comuni di Neurone, Favale, Moconesi e Cicagna). Sempre in questo periodo presentano tassi di emigrazione meno elevati i comuni situati rispettivamente alle spalle di Recco, Uscio e Avegno e, a Levante, quindi alle spalle di Chiavari, Leivi e Cogorno.

Favale di Malgaro è considerata la piccola capitale dell’emigrazione fontanina in America. Vi si danno convegno dal 1959 per la “Festa dell’emigrazione”, gli eredi della cultura fontanina che si sono trasferiti a vivere nel Nuovo Mondo e sono rimasti a un tempo fedeli alla patria d’origine. Segni tangibili del loro attaccamento a Favale sono le due grandi vetrate, dedicate a Santa Rosa da Lima e a Santa Francesca Saverio Cabrini, patrona degli emigranti (nella chiesa parrocchiale) e il monumento all’emigrante (eretto sulla piazza del paese) a ricordo di quanti hanno dovuto abbandonare il loro piccolo e povero mondo, prodigio di speranza, ma più spesso di disinganni e di miseria, per cercare fortuna oltre Oceano. Molti da Favale come da tanti altri piccoli centri della Fontanabuona, sono partiti verso le Americhe con le poche cose infilate in un sacco, non certo con la valigia e gli abiti quasi borghesi dell’uomo che campeggia sullo sfondo delle case reintonacate con colori acrilici. Oppure qualcuno di questi figli di Favale in America hanno fatto davvero fortuna come Amedeo Pietro Giannini, fondatore della banca d’America e d’Italia.    

 

Emigrazione dalla Val Fontanigorda

Di particolare interesse è il fenomeno emigratorio nel comune di Fontanigorda.

L’economia di questo paese si basava, fino ai primi decenni del secolo scorso, sull’agricoltura e sulla pastorizia. Va però ricordata la coltivazione di castagneti da frutto e la produzione di carbone. Il conseguente taglio degli alberi causava una diminuzione del patrimonio boschivo, che aumentando la povertà locale di risorse, provocò una grande emigrazione. Il fenomeno fu evidente già dagli ultimi anni del 1700 come attesta una relazione inviata dal municipio di Fontanigorda all’istituto Nazionale nel 1799: nel periodo di pausa dai lavori, molte famiglie si trasferivano in Lombardia e in Toscana. Fin dall’inizio il fenomeno emigratorio appare strettamente collegato all’incremento demografico che causava esuberi di mano d’opera. Nella seconda metà dell’800 l’emigrazione si fece massiccia, fino a raggiungere livelli molto alti dopo l’unità d’Italia (1861). Molto consistenti, già in quel periodo, le partenze verso l’America. In una lettera del1868 il prefetto di Bobbio scrive al sindaco “molte persone, pur di emigrare nelle Americhe, si tassano e contraggono debiti con amici e parenti. Al fine di evitare intrighi futuri il sindaco è tenuto a vigilare su eventuali contratti di questo tipo”. Varie misure restrittive pare abbiano frenato l’emigrazione, per poi riprendere verso la fine dell’800. La destinazione erano prevalentemente gli Stati Uniti, in modo speciale la California. Verso l’Argentina si dirigeva, in massima parte,  chi aveva parenti.

Nell’epoca della prima guerra mondiale i partenti si diressero quasi tutti in Francia e chiamarono presso di sé le loro famiglie, mentre molti altri spaventati dalla guerra tornarono a Fontanigorda. Negli anni successivi si fermò il fenomeno migratorio a causa del fenomeno turistico, che migliorò notevolmente l’economia locale, e quasi tutti gli abitanti rimasti trovarono lavoro nel settore commerciale, nel ramo edilizio.

Molto importante per l’economia di Fontanigorda fu l’industria dell’esca.

L’esca è un prodotto ottenuto dalla lavorazione artigianale di un fungo (il fungus fomentarius) che si forma sui tronchi dei faggi abbattuti. Questo prodotto veniva utilizzato per confezionare bende emostatiche, come combustibile. Inizialmente furono gli incettatori a esportare la merce, ma già intorno al 1800 i fabbricanti si emanciparono e costituirono vere e proprie ditte. I principali mercati erano la Germania, la Francia, la Spagna, la Svizzera, oltre a numerose città italiane. Verso la fine dell’800 ci fu un graduale declino a causa della mancanza della materia prima, e non per mancanza di richiesta, fino alla cessazione di questa attività negli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale. A partire dal 1875 un gran numero di abitanti iniziò a migrare verso la Francia, soprattutto a Marsiglia, presumibilmente come conseguenza del commercio dell’esca. Un'altra consistente parte di persone si diresse a Saint Maime, un comune delle alpi dell’Alta Provenza, per lavorare nelle miniere di lignite delle vicinanze. Per non dimenticare i tanti emigranti, Fontanigorda e Saint Maime hanno siglato uno storico gemellaggio. In ambedue gli incontri, del 1992 a Fontanigorda e del 1994 a Saint Maime una piazza del paese  è stata dedicata al paese gemello.

Agli inizi del 1800 ai contadini del paese di Casoni arrivò la notizia di un importante lavoro a Smirne, in Turchia e per questo varie imprese italiane assumevano mano d’opera.  Fra gli altri giovani che si offrirono si ricorda Giovanni detto Caristra, Michele detto Chelin e suo cognato il giovane Benedetto, ventenne della famiglia dei Cugni di Villanova . Rimasero in Turchia solo un anno, ad eccezione di Benedetto, del quale non si ebbero più notizie per ventinove anni, durante i quali i famigliari provarono a rintracciarlo attraverso i vari consolati, senza ottenere alcun risultato . Benedetto Ferretti visse, senza dare alcuna notizia, nell‘impero dell’ultimo Zar della Russia. Lavorò lungo la linea ferroviaria Transiberiana che raggiunse il mar del Giappone. Lavorando continuamente riuscì a mettere da parte qualcosa,  ma dopo aver trovato moglie e aver avuto una figlia, arrivò un periodo difficile segnato dalla prima guerra mondiale, la grande rivoluzione di Ottobre e la guerra civile e in più l’inflazione raggiunse livelli molto alti. Tutta la sua fortuna consistente in una valigia piena di banconote valeva molto poco.  Ritornò al suo paese nel 1920, ormai vecchio, senza moglie e non senza più notizie della figlia . Da quel giorno lo definirono Benèitu u Ruxu. Aiutava i parenti conducendo la mandria delle giovenche al pascolo. Morì nel 1942 . Altro racconto della tradizione locale di Casoni è la storia de “U Gròssu”, chiamato così forse per la sua corporatura, ma il cui vero nome era Bartolomeo. Nato nel 1833, decise di tentare la fortuna nel 1855, partendo per Denver, Colorado. Lasciando amici, parenti e la sua fidanzata Caterina, detta Bettin.  Bartolomeo si imbarcò, e dopo ventidue giorni di viaggio dentro una cabina di pochi metri quadrati divisa con altre 7 persone, arrivò a New York.  Da lì partì per il Colorado con altri emigranti italiani,  arrivando fino a Omaha nel Nebraska, proseguendo quindi lungo la linea ferroviaria transcontinentale fino al fiume South Platte in Colorado, Da qui raggiunse Denver in tre giorni, viaggiando in diligenza. In otto anni di lavoro in miniera aveva raggiunto un certo tenore di vita,  ma volendo sposare la giovane fidanzata decise di tornare al suo paese con l'intenzione di stabilirsi definitivamente in America con lei. I due giovani partirono quindi per la casa in Colorado ma non ebbero molta fortuna: le loro due figlie morirono molto presto, e successivamente anche “Bettin”. Rimasto solo , decise di ritornare in patria e sposò una donna di Casoni che gli diede una figlia. Morì nel 1907. 

 

 

Emigrazione ligure dalla metà dell’800 alla metà del 900 dalla Fontanabuona

L’occasione ad emigrare dalla Fontanabuona già dalla metà dell’Ottocento fu offerta da diversi elementi:

  • l’isolamento geografico, accentuato dalla realizzazione della ferrovia costiera,

  • la tardiva costruzione di strade rotabili nella vallata,

  • il venir meno dei rapporti economici tra l’Appennino e la riviera (che facevano della Fontanabuona un luogo di transito e di scambi),

  • la decadenza di antiche attività artigianali,

  • una accentuata imposizione fiscale,

  • le guerre nazionali e il servizio militare obbligatorio.

A tutto questo si aggiungeva anche il fascino esercitato dal Nuovo Mondo, dove a parità di impegno e di fatica si potevano conseguire redditi di gran lunga superiori a quelli ottenuti lavorando le magre terre della vallata o consumandosi l’esistenza nelle malsane cave d’ardesia aperte in gran numero sul finire dell’800.

Mete tradizionali dei fontanini che, nell’arco di un secolo, a migliaia partirono per le Americhe furono New York e San Francisco e al sud Argentina, Cile e Perù.

Ma questo loro “andare in America” non ebbe la forma di un esodo generalizzato e disordinato.

Si trattò piuttosto di una precisa scelta di famiglia concordata tra padri e figli, tra fratello e fratello; dettato da una valutazione ponderata, con l’obiettivo di mettere a profitto le capacità, le energie del singolo a favore del comune, l’interesse familiare.

Di questo comportamento si ha un esempio nell’epistolario della famiglia Cuneo “memoia” di Calvari-Pratofficioso, recuperato grazie alla sensibilità di Andrea Cuneo, l’ultimo discendente della famiglia, e di sua madre Luisa Torre.

Fin dal 1852 troviamo i “memoia” in America, ma uno di loro è sempre rimasto a Calvari a coltivare terreni assieme ai genitori. In questo scambio di lettere si legge che dall’America giungevano soldi per acquistare terre migliori, per ampliare o restaurare la casa; denaro spesso derivato da catene di solidarietà tra i parenti che continuavano anche per diverse generazioni successive.

Questa dell’800/900 si può definire una emigrazione responsabile e calcolata, diretta a conseguire risultati positivi non soltanto al di là dell’oceano, dove in tanti si sono affermati contribuendo alla formazione economica e politica della loro seconda patria, ma anche nei paesi di origine, dove il ritorno dei “mericani” o le sostanziose rimesse ai familiari consentirono nuove opere edilizie, il riscatto di terre, il miglioramento del tenore di vita.

Tra queste due emigrazioni troviamo poi il fenomeno, non secondario degli spostamenti e della mobilità, che probabilmente ha caratterizzato la Fontanabuona un po’ in tutti i tempi.

Ne sono testimonianza relativamente recente i racconti di gente che dalla vallata andava nel vercellese a mondare il riso, sulle colline dell’oltre Pò a mietere il grano, a Soncino e Orzinovi nel Cremonese a “fare”la foglia di gelso per gli allevamenti dei bachi da seta.

Ma c’era anche gente che partiva da Gattorna, da Pian dei Preti e da Ognio per andare in Germania, in Polonia, nei Paesi Bassi a vendere giocattoli in stoffa e cartone.

 

L’emigrazione da Chiavari

Quando si parla di emigrazione si pensa al ritorno, in genere, più che alla partenza: nell’immaginario collettivo al ritorno sarebbe stata una gran festa, ricchezze e modi tutti da imitare nei vecchi concittadini tornati a casa.

Tra Ottocento e Novecento migliaia di “chiavarini” furono costretti a lasciare la loro terra, per emigrare in luoghi “nuovi”, alla ricerca della Fortuna e del sogno. Nei luoghi lontani in cui arrivarono furono accolti con disprezzo e con paura in quanto poveri e in quanto stranieri.

Il Levante Ligure è stato un importante fulcro per il movimento migratorio, perché l’arretratezza dell’economia del tempo causava grande miseria fra la povera gente, che, per quanto fosse faticoso e doloroso andarsene dalle proprie comunità, partirono per il nuovo mondo, la cosiddetta “Merica”.

Le istituzioni e i governi di allora conoscevano queste situazioni di disagio, ma sembravano impotenti, così le cronache d’allora, conservate nel nostro Archivio Storico, descrivono questa povertà e questa speranza, in una terra difficile da coltivare, con scambi ridotti e con impianti agricoli di sussistenza.

Alcuni sono tornati, portando con loro gusti architettonici e artistici e abbellendo la città con ville in stile americano, dopo aver fatto realmente fortuna e aver vissuto per decenni in città oltreoceano, altri invece non tornarono ed altri ancora tornarono poveri poco meno di prima.  La comprensione della storia è fondamentale, se non si vogliono commettere gli stessi errori del passato, ma certo bisogna ammettere che anche la memoria storica, dopo un secolo e mezzo e almeno due generazioni, comincia a farsi labile, a passare di nonno in nipote sempre meno. Questa perdita, se proseguisse fino a realizzarsi, sarebbe destinata a portar via alle generazioni future il grande dono della conoscenza delle proprie radici e della tolleranza. Perché è proprio vero che “gli albanesi eravamo noi”[4] e questo, come le motivazioni che portano un popolo a spostarsi dalla propria terra, forse non solo per le nuovissime generazioni, sembra essere già stato dimenticato.

Tra i primi comuni liguri dal quale partirono diversi migranti troviamo quello di Chiavari. Queste migrazioni iniziano nel periodo di amministrazione francese e spesso ne sono i protagonisti giovani borghesi insoddisfatti del nuovo governo e in cerca di avventure e di ricchezze in paesi ancora sconosciuti.

Il distretto di Chiavari era il secondo della Liguria (dopo quello di Genova) per numero di addetti alle industrie; ma si trattava soprattutto di addetti ad attività tessili, si lavoravano canapa e lino, oltre che il cotone e la seta. Oltre alla lavorazione dei legnami nei cantieri e per usi marittimi e in particolare alla produzione di sedie, importante era l’intreccio di vimini e la fabbricazione di cesti. Queste varie tipologie di lavoro continuarono a crescere per un lungo tempo nonostante iniziassero a esserci sempre più consistenti flussi migratori.

Poco dopo l’unificazione d’Italia fu fatto un censimento dal quale risultò che le crescenti emigrazioni continuavano a modificare l’aspetto demografico della zona e spesso di tutto il Regno. Certo è che non esistono dati certi riguardo all’immigrazione del periodo precedente, unico indizio è il fatto che il Comune di Chiavari, nei primi anni quaranta del secolo, ha rilasciato numerosi passaporti per espatri in Lombardia, che non era compresa nel Regno di Sardegna, e per nazioni europee come Francia e Spagna; sicuro è invece il fatto che coloro che dichiaravano di partire alla volta di nazioni europee partivano quasi sempre per le Americhe.

Solo indicativamente si può segnalare la partenza di una centinaio di persone all’anno dal Comune di Chiavari, nel 1850. Ad essi occorre aggiungere coloro che sfuggivano alle registrazioni, benestanti e commercianti, che a Chiavari non erano pochi. Infine, c’erano i marinai che, una volta arrivati nei porti americani, disertavano volentieri.

Secondo stime locali, meno del 10% di migranti rientrava in Italia. Dopo la metà del secolo l’Argentina accoglieva intere famiglie di emigrati da Chiavari, altri erano in Perù, dove spesso possedevano farmacie e case di esportazioni-importazioni e perfino in Venezuela. Sempre in questi anni iniziano a registrarsi consistenti flussi migratori verso l’Uruguay, l’Ecuador  e il Cile.

Fino all’apertura delle ferrovie, il Comune di Chiavari vantava uno dei porti più importanti di Liguria, dal quale partivano navi cariche di merci, ma anche di emigranti, verso differenti parti delle

americhe. Nonostante il numero di partenze piuttosto elevato, il primo decennio del Regno, in quanto a popolazione, era contrassegnato da un segno positivo, mentre all’inizio del secolo XX si delineava sempre più un dato che indicava il numero di persone residenti superiore a quello di presenti. Oramai un ruolo notevole per lo sviluppo demografico di Chiavari lo avevano assunto i movimenti migratori. Da un lato, la popolazione delle valli dell’entroterra che scendeva a cercare lavoro in città; dall’altro, i molti che dal litorale emigravano diretti specie nelle americhe. Dalle ricerche sembrerebbe che dal 1861 in poi gli esodi furono più numerosi: i bastimenti che portavano gli emigrati in America erano diventati più veloci e un po’ più confortevoli; le compagnie di navigazione svolgevano propaganda anche nelle campagne, facendo si che da Chiavari partissero sempre più contadini. L’intenzione era magari quella di rimanere laggiù solo qualche anno, ma, se gli affari andavano bene, il soggiorno si prolungava o diventava permanente.

I dati relativi al rilascio dei passaporti, mostrano che nel 1879, furono rilasciati ben 93 passaporti di cui ben 87 per le Americhe. Dei partenti, 55 vogliono andare a Buenos Aires, altri vogliono raggiungere l’Argentina, Cile e Perù, ma solo qualcuno ha come metà gli U.S.A.

Molto spesso i migranti riuscivano ad inserirsi bene nell’ambiente estero, tanto che nel giro di pochi anni, molto spesso riuscivano a fare ritorno a casa con soldi sufficienti per restaurare la propria casa, se non costruirne una nuova. Coloro il cui viaggio aveva fruttato più denaro, organizzava attività redditizie investendovi i propri guadagni. Spesso però queste attività erano tenute nascoste per non essere rintracciate dal fisco. Grazie a tutti questi movimenti di denaro, alla fine del secolo, Chiavari risultò essere una tra le città più ricche del tempo. Molti non ebbero esitazione nel dedicarsi ad investimenti immobiliari, nasceranno così le ville che vengono definite come lo Status Symbol di chi è tornato dalle Americhe arricchito.

Durante i primi decenni del XX secolo Chiavari conobbe un periodo di splendore, difatti continuava la corsa immobiliare, tanto che le costruzioni raggiungevano ormai le colline, inoltre Chiavari era una nota località turistica, tanto che iniziarono anche le costruzioni di grandi collegamenti stradali, per collegare Chiavari con l’interno oltre che con le città limitrofe.

L’incremento della popolazione fu costante sino ai primi anni del secondo decennio, nonostante i flussi migratori fossero ancora piuttosto vivaci difatti in questo periodo si indicano partenze annue di circa 100/120 cittadini. Fra i partenti diminuiscono di molto i benestanti; l’età media è molto bassa, spesso sotto i vent’anni. Numerosi fra i migranti erano i garzoni da negozio, oltre che fruttivendoli, falegnami e seggiolai, muratori, contadini e parecchie domestiche. Le donne infatti emigravano volentieri, anche da sole.

Interessante, dal punto di vista geografico, è la consistenza che avevano preso i flussi migratori verso gli U.S.A., sia in California, sia  New York e dintorni. Le relazioni ormai stabilitesi attraverso l’oceano avevano tali dimensioni, che casi di emigrazione si verificarono anche nel 1915 e nel 1918. Nell’immediato dopoguerra si arrivò di nuovo al livello del centinaio di partenze per anno, mentre l’incremento della popolazione continuava, anzi si accentuava fra il 1921 e il 1931, ed ancor più fra il 1936 e il 1951, periodo in cui Chiavari arrivò a superare i 20000 abitanti.

Fortunatamente, grazie alla politica intrapresa dai governi italiani, molti migranti decisero di tornare, anche se erano una netta minoranza rispetto al numero di quanti partirono alla volta delle americhe. Pure durante la seconda guerra mondiale si registrarono casi di partenze da Chiavari per l’America Latina, per un totale di circa quaranta persone partite dal 1940 al 1944. Oltre a queste partirono dal 1846 al 1948 circa novanta persone dirette però negli Stati Uniti.

È una migrazione discontinua, di “qualità”, di giovani che, stimolati dall’esempio di parenti che vivono agiatamente oltre oceano, vi vanno a cercare guadagni più alti e stabili di quelli di cui godono in patria.

 

 

L’emigrazione dal circondario di Chiavari:

Nel decennio che va dal 1854 al 1863 dal circondario di Chiavari partirono 9917 contadini, 383 artigiani, 4770 operai braccianti e persone senza occupazione, 14 commercianti e negozianti e 1588 persone con altre professioni, per un totale di 16672 emigranti. Andarono in Europa 2338 persone, nell’America del Sud 12400 persone e negli altri stati 1434 (a parte nell’America del Nord, nella quale non si recò nessuno).

Per quanto riguarda Leivi, comune già noto come San Rufino, si trova nell’entroterra, a 5 km da Chiavari, dalla quale ha sentito una grande influenza riguardo alla vita economica e sociale e riguardo ai flussi emigratori.

Il territorio è quasi tutto collinare, senza grandi alture; solo nella parte occidentale del Comune possiamo trovare cime che raggiungono un massimo di 500 metri.

L’area a sud è la zona che presenta le migliori opportunità agricole, infatti questo territorio è uno di quelli della Provincia in cui la coltivazione di olivi era più diffusa e con maggiori rese (questa fu incrementata nei secoli XIII e XIX sostituendola alla coltura della vite). Questo versante marittimo, direttamente collegato a Chiavari da mulattiere, divenute poi strade carreggiabili, è ricco di coltivazioni e insediamenti di antica origine. Il territorio, già feudo della famiglia Solari (le cui origini sono anteriori al 1100), seguì ben presto le vicende di Chiavari. Il versante esposto a settentrione si prestava a poche coltivazioni (viti, cereali e verdure), quindi contava pochi insediamenti agricoli, sottoforma di case sparse. Parte del territorio probabilmente si coltivava anche il gelso, poiché già nel 1846 ne è segnalata una certa produzione che alimentava la tessitura della seta. Un gran numero di donne invece erano impiegate  nella preparazione della tela di lino per conto dei negozianti chiavaresi. Le tessiture domestiche davano un buon reddito, integrativo di quelli agricoli.

Altre fonti di reddito venivano da modeste attività artigianali, praticate da taglialegna, falegnami e calzolai, oltre che dalla solita trasformazione dei prodotti della terra e dell’allevamento.

In un simile quadro economico la popolazione di Leivi crebbe progressivamente nel secolo scorso, fino al decennio successivo all’unità d’ Italia, allorché nel 1871 la popolazione residente raggiunse oltre i 1800 abitanti (massimo storico), mentre i presenti erano circa 1600. Uno scarto così evidente  mostra che già allora era in atto una certa emigrazione. Evidentemente l’attrazione di Chiavari e degli altri vicini centri litorali già allora sottraeva popolazione, ma non sono da escludere movimenti stagionali per i lavori agricoli nella Padania e neppure partenze per le Americhe, addirittura anteriori alla metà del 1800. Questo fu, ad esempio, il caso di Andrea Vaccarezza, nato nel 1831 nella frazione di San Bartolomeo, che nel 1848 emigrò in Argentina dove diventò, dopo qualche tempo, un grande proprietario terriero, in una località che reca il nome della famiglia.

Le prime statistiche ufficiali dell’emigrazione rilevano flussi già consistenti negli anni ottanta e negli anni successivi, infatti tra il 1884 e il 1894 sono segnalate, in media, diciannove partenze per anno, con valori massimi, nel 1889, di quarantaquattro emigrati. Probabilmente però gli esodi maggiori furono però anteriori a tali date, giacché lo scarto tra residenti e presenti, dai valori particolarmente elevati si ridusse nel 1881 ad una sessantina di unità.

L’emigrazione riguardava tutto il territorio comunale; ne erano protagonisti soprattutto i contadini, che nei luoghi di destinazione si dedicavano spesso al commercio e all’artigianato, formando colonie piuttosto compatte a Buenos Aires e in altre località delle sponde del Rio de la Plata e dell’interno dell’Argentina. Pochi casi invece sono per allora ricordati di emigrazione verso il litorale del Pacifico dell’America meridionale e verso la California. Così dopo il 1871 e fino al 1901 la popolazione residente di Leivi decrebbe anche se per quella presente la riduzione era già cominciata nel 1861. In questi decenni infatti anche qui si fecero sentire gli effetti della crisi dell’olivicoltura, cui si aggiunse presto la decadenza della tessitura manuale, senza che nel Comune nascessero impianti meccanici.

Nell’economia del Comune si aggravavano così i disagi occupazionali ed i redditi delle famiglie si riducevano, così interi nuclei familiari erano indotti a partire per le Americhe, ancora una volta seguendo l’esempio di quanto avveniva ormai non solo nella fascia litoranea, ma anche nell’interno.

Alla fine del secolo l’emigrazione aveva assunto un chiaro carattere definitivo, chi rimaneva continuava a coltivare i poderi e ad accudire le case abbandonate, come mostrano i dati dei censimenti, mentre i rimpatri, che cominciavano ad essere documentati,non avevano incidenze di rilievo sul tessuto locale. Chi tornava a Leivi portava piccole somme di denaro, insufficienti per investimenti di qualche rilievo.

Una piccola serie di testimonianze dei primissimi anni del nostro secolo prova la presenza di flussi migratori avvenuti già in precedenza. Infatti i genitori di Giuseppe e Maria Teresa Peirano nati a Santa Rosalia nel 1900 e 1902, dovevano essersi stabiliti a Buenos Aires da qualche anno; Giovanni Canepa nasce nel 1901 da un commerciante di Leivi stabilitosi in Perù.

I primi decenni del nostro secolo vedono ancora una riduzione degli effettivi demografici di Leivi, senza però sostanziali scarti fra la popolazione presente e residente.

I flussi di emigrazione verso le Americhe non erano cessati, infatti nei primi dieci anni del nuovo secolo si registra una media di oltre venti partenze all’anno, con una punta massima nel 1907, con poco più di quaranta partenze.

Alla vigilia della prima guerra mondiale invece l’emigrazione non oltrepassa mai le dodici o tredici unità (per esempio nel 1912).

L’orizzonte geografico, quanto a destinazioni sembra allargarsi, giacché questi si dirigono in gran numero a Buenos Aires, ma da lì raggiungono varie località interne dell’Argentina e qualcuno raggiunge persino il Perù e il Cile, come la famiglia Solari.

Dopo le vicende belliche e dopo che il flusso migratorio era notevolmente diminuito (nei sette anni fra il 1919 e il 1925 si contano in totale trentaquattro emigrati) questo conosce una certa ripresa. Per esempio nel 1920 partono da Leivi venti persone e sempre negli anni post-bellici si ha la notizia della morte oltre oceano di emigrati in periodi precedenti.

Gli emigrati sembravano ormai ben inseriti nelle società locali, dell’Argentina, del Cile, del Perù, della California; di tanto in tanto qualcuno rimpatria; molti di più mantengono i legami epistolari con i parenti, inviano rimesse e durante la seconda guerra mondiale pacchi di generi alimentari (soprattutto zucchero e caffè).

Non stupisce perciò che qualche flusso emigratorio si sia manifestato anche negli anni del regime fascista, mentre la popolazione locale rimaneva sostanzialmente stazionaria e tale rimase fino al 1851, con un modestissimo scarto fra residenti e presenti.

Nel secondo dopoguerra inizia il processo per cui Leivi diverrà in pratica una periferia di Chiavari, con conseguenti migliori possibilità occupazionali  per gli abitanti. Ciò nonostante l’esempio di quanti erano emigrati in precedenza stimolavano altri esodi.

Così partì, con tutta la famiglia, colui che probabilmente era l’ultimo mugnaio del Comune, Giuseppe Peirano, che si diresse in Cile. Altri emigrati si appoggiarono invece alle famiglie che già si erano stabilite in quei luoghi.

L’emigrazione da Leivi risulta così come un processo non privo di interesse, soprattutto per le comparazioni che permette con Comuni vicini. Questa popolazione prende in grandissima prevalenza, la via dell’America meridionale, soprattutto dell’Argentina, ma raggiunge anche, relativamente più tardi, paesi dello stesso continente bagnati dal Pacifico. Non mancano però casi di emigrati negli U.S.A., soprattutto in California, probabilmente per imitazione delle tendenze che prevalevano invece nella valle della Fontanabuona. L’emigrazione si inserisce inoltre in un processo di trasformazione delle funzioni dei locali insediamenti e delle attività economiche, per cui la città di Chiavari estende sempre di più la sua influenza su quest’area, nella quale i mestieri tradizionali decadono o scompaiono. Tutto sommato fu un’emigrazione eminentemente contadina. Non ne vennero grandi vantaggi alla comunità locale, se non quelli di concorrere ad attenuare i fenomeni di sovraccarico demografico e a eliminare le cause di eventuali tensioni sociali che potevano derivare dalle ricorrenti crisi economiche del Comune.

 

L’emigrazione nel territorio di lavagna

Il comune di Lavagna si estende lungo il litorale, sulla parte sinistra dell’Entella. In questa parte del territorio le pendici sono abbastanza accentuate, coperte spesso da castagneti. Lavagna fu famosa per le vicende delle grandi famiglie locali, infatti passò nel medioevo ai Fieschi, una delle più importanti famiglie della regione. La decadenza di questa famiglia mise in rilievo quella della città di Lavagna, danneggiata già in precedenza dalle attenzioni che Genova dedicava a Chiavari. Nel XVII secolo il Comune aveva le forze per opporsi alla realizzazione di un progetto di strada litoranea da Chiavari a Sestri Levante e nel XVIII ottenne l’intervento genovese per l’arginamento dell’Entella e la bonifica dei vicini terreni acquitrinosi. Gli insediamenti urbani per tutto il secolo scorso furono localizzati sulle colline dell’interno, articolati in piccoli centri, come quelli di Santa Giulia, Sorlana, Barassi e Crocetta con molte case sparse. Questo è uno dei Comuni delle Riviere liguri, che durante il secolo scorso, riuscì a sollevarsi dalle precedenti condizioni di povertà, grazie alla valorizzazione di tutte le risorse. Dalle cave dell’interno scendevano numerosi sentieri che si riunivano in tre principali strade di ingresso a Lavagna: la strada di Rezza, la strada della Costa e quella di Santa Giulia. Questi percorsi erano attraversati da donne di tutte le età, che portavano carichi in bilico sulla testa. Di solito attraversavano il sentiero due volte al giorno. La merce giunta a Lavagna veniva posta nei numerosi magazzini e qui successivamente veniva prelevata dai laboratori degli scalpellini che in quel tempo erano circa ottanta.

A Lavagna un’attività di tradizione antichissima fu quella cantieristica. Nel secolo scorso dai cantieri lavagnini furono varati la prima nave ed il primo bastimento italiano, che apparve davanti a Golden Gate. Dopo la metà del secolo a Lavagna dodici cantieri navali fabbricavano natanti d’altura, tra cui i più grandi bastimenti per gli armatori d Camogli, che praticavano la navigazione oceanica. Negli stessi anni Cavi, collegato sia a Sestri Levante, sia a Lavagna, aveva un’economia piuttosto autonoma, rispetto alla città di Lavagna. A Cavi nel corso del secolo non mancò qualche iniziativa paleoindustriale: nel 1849 era stata aperta una fabbrica di sedie del tipo chiavarese del Campanino e nell’anno 1849 un’altra di zolfanelli, fettucce e stringhe, che occupava come operai una settantina di fanciulli. Le vicende demografiche del Comune, attestano uno sviluppo continuo, ma regolare dagli inizi del secolo fino al 1871, grazie ad una natalità elevata, infatti tra il 1838 e il 1848, il numero degli abitanti crebbe di oltre il dieci per cento.

 

Lo sviluppo della popolazione residente a Lavagna

Nella prima metà dell’ottocento le relazioni fra Lavagna e L’America meridionale erano molto intense. Nel 1835 il trentaseienne Bartolomeo Copello mori a Santo Tomè, nel 1831 un giovane marinaio di nome Giacomo Garibardo, annegò nella rada di Montevideo; Nicola Noceti emigra al Plata verso il 1835. Nei decenni seguenti le varie notizie sugli emigrati nell’America meridionale andavano aumentando in modo considerevole. Nell’anno 1841 Giuseppe Palma morì nella colonia dei santissimi sacramenti e Bartolomeo Isetto a Buenos Aires.  Il marinaio Antonio Zolezzi annegò nel 1844 nel fiume Antiguera, nei pressi di Buenos Aires, cadendo da un lancione, impegnato nei traffici fluviali. I motivi per cercare fortuna oltre oceano sono sempre più numerosi: le carestie del 1847, la successiva guerra di indipendenza, i pochi raccolti del 1854, l’epidemia di colera del 1856 ecc. Non stupisce perciò che nell’anno 1853 Manuel Piazzi morì a Panama e che nello stesso anno una bimba di soli due anni, Candida Chiappara, morì a bordo del brigantino Macchiavello, forse mentre tornava in patria da Montevideo, dove abitava. Nell’anno 1876 gli emigrati di Lavagna erano possessori di ben dodici case commerciali di commissioni e consegne all’estero, tra cui a Montevideo, a Buenos Aires, a Valparaiso, a Rosario ed in California.  Tra tutti gli emigrati di Lavagna che ebbero un grande successo in America possiamo ricordare “Gerìn” (Angelo) Bianchi, nato da una delle più antiche famiglie del Comune nell’anno 1941, che nel 1979 era a Buenos Aires, dedito ai commerci. Ritornò definitivamente a Lavagna verso la fine del secolo e alla sua morte lasciò 200.000 lire al Comune, per creare un monumento dedicato a Cristoforo Colombo. Giovanni Copello, proveniente da una famiglia contadina nel 1865 circa, si stabilì a Buenos Aires,  al Barrio di Sant’Elmo, dove in seguito lo raggiunse la moglie Maria Bianchi, da cui ebbe quattro figli. Santiago, il loro secondogenito, diventò il primo cardinale dell’America meridionale

Il capitano Stefano Chiappara, nato nel 1807 a bordo di un veliero, già dal 1825 navigava sulla rotta del Plata. Nel 1840 comprò una piccola imbarcazione in società con il capitano Bartolomeo Ravenna, con la quale trasportò verso Montevideo dodici passeggeri e merci. La sua morte avvenne nelle acque del Rio de la Plata nel 1850 in una notte di luglio. Nel corso del secolo la popolazione di Lavagna arrivò a più di 7.000 abitanti presenti, invece gli assenti risultavano circa 150. Ma già dal 1881 residenti e presenti quasi si equivalevano. Gli anni di grande emigrazione furono il 1910 in cui ci furono centodieci unità, il 1912 oltre ottanta, il 1904 ed il 1913 oltre settantacinque.  Alcune iniziative economiche, tra cui l’apertura nella parte orientale di Lavagna nel 1906 del Cotonificio Entella, occuparono una notevole mano d’opera, fra impiegati e operai.

 L’occupazione locale ne risentì beneficamente e a partire dal 1911 la popolazione del Comune riprese a crescere, tanto più che gli anni di guerra segnarono un arresto del fenomeno migratorio.

 In conclusione la città di Lavagna rientra in quell’area costiera ligure che, dal Tigullio a Sestri Levante ebbe un numero maggiore di emigrati. Quanto a destinazioni gli emigrati da Lavagna preferirono sempre, come si è visto l’America latina e le regioni del Rio de la Plata, ma non mancarono insediamenti nell’interno, ovvero in Argentina e in Uruguay. Nel complesso l’emigrazione da Lavagna può essere giudicata in modo positivo, perché da un lato permise alla gente del litorale di realizzare nel modo migliore le sue capacità imprenditoriali, e dall’altro alleggerì il sovraccarico delle campagne retrostanti.                              

   

Il fenomeno emigratorio nel ‘900

Roberto Torretta, autore del sito Internet “ www. Montessoro.too.it , ha pubblicato un articolo il 24 maggio 2005, dove riporta la storia molto significativa di suo nonno, che emigrò nel 1904 all’età di ventiquattro anni. Sentendo decantare, dal “mediatore” di una compagnia di navigazione, le ricchezze e la fortuna che si potevano trovare oltre Oceano, il  ventiquattrenne e altri suoi amici, decise di partire, senza sapere esattamente dove sarebbero andati. Un giorno presero il treno e arrivarono a Le Havre, in Francia, da dove partivano le uniche linee dirette per New York ( per raggiungere il porto francese spesero circa 360 lire).

Una volta raggiunto l’imbarco della nave “La Touraine” gli emigranti furono divisi in due gruppi: uomini e donne/ bambini, e alla  fine furono sistemati in terza classe. Durante la traversata, era loro vietato uscire e salire sui ponti, riservati ai passeggeri più facoltosi. La nave attraccò a New York l’1 maggio 1904. Da lì vennero condotti al Castle Garden, sede dell’ufficio immigrazione degli Stati Uniti, che venne poi spostato a Hellis Island. Dopo una visita medica e il controllo dei documenti, veniva accettato chiunque fosse ritenuto adatto a lavorare, chi avesse avuto un recapito e non fosse stato anarchico. Al giovane italiano e ai suoi compagni chiesero se fossero in possesso di una richiesta di lavoro, ma ignari di tutto, gli venne detto che sarebbero stati rimpatriati al più presto. La stessa sera si presentò nell’ufficio immigrazione un italo-americano, che si offrì di provvedere a questi disperati, e dopo essersi fatto consegnare una discreta somma li portò alla stazione, dove li spedì in California. Dopo otto giorni di viaggio giunsero a Sacramento, dove insieme ad altre persone provenienti da tutto il mondo, furono mandati a raccogliere frutta e verdura nelle piantagioni locali.

Nel 1906, rifugiandosi sulle montagne di San Francisco, a causa di un terremoto, il gruppo di genovesi trovò lavoro come taglialegna. Il nonno di Torretta rimase in California circa quattro anni, lavorando a Sacramento, Stockton, San Francisco, Reno Nevada, ma facendo pochi soldi. Tornato a casa nel 1908 e sposandosi nel 1909, decise di ripartire solo alla volta della California, probabilmente per la vita precaria di quegli anni. Lì lavorò con un’impresa per la raccolta dei rifiuti. Dopo aver chiesto alla moglie di raggiungerlo, e dopo la risposta negativa di quest’ultima, decise di ritornare in Italia, pur sapendo dell’imminente guerra.

 

Storie ed interviste:

Gli spostamenti di popoli per terra e mari hanno caratterizzato la storia umana per migliaia di anni, migrazioni di vasta portata o locali, di massa o di singole famiglie. E’ un fenomeno che in qualche misura c’è sempre stato. Bisogna distinguere tra immigrazioni e migrazioni. Le migrazioni avvengono quando un popolo abbandona la propria terra e va ad insediarsi sul territorio di un altro popolo ed interessano enormi masse di persone che si spostano tutte insieme. Le immigrazioni avvengono quando una parte delle persone di un certo paese, va a vivere in altre regioni, sperando di trovare lavoro ed una migliore condizione di vita.

Storie di immigrati ci appaiono giornalmente in televisione e sulla stampa. In cento anni, dal 1876 al 1976 circa, emigrarono 27 milioni di italiani, per il fatto che nei paesi delle vallate si moriva letteralmente di fame. Imbarcati in stive stracolme di altri disperati provenienti da Turchia, Grecia, Polonia, spesso non sapevano nemmeno dove la nave li avrebbe condotti. Una volta sbarcati, la maggior parte finiva per vagabondare, o si dava all’accattonaggio, altri finivano nella malavita organizzata, i più onesti, invece,  venivano sfruttati da datori di lavoro senza scrupoli

 

L’emigrazione infantile:

Le storie che riguardano l’emigrazione infantile, purtroppo, sono in assoluto le più brutali e disumane. Ci sono testimonianze di bambini venduti o affittati, dai loro stessi genitori, a individui sconosciuti che li usavano per mendicare nelle città d’oltreoceano, picchiandoli in caso di introiti bassi o poco soddisfacenti e trattandoli come veri e propri schiavi. Esistevano contratti d’affitto veri e propri, con una struttura simile a contratti moderni, a metà fra una compravendita e un contratto di lavoro. Fino a che i bambini fossero rimasti di aspetto infantile sarebbero tornati utili al padrone, dopodiché sarebbero stati rimpatriati senza complimenti, perché i contratti avevano in genere scadenza di circa trenta mesi. I ragazzi venivano portati all’estero, come da contratto, come suonatori d’organetto, ma in realtà il loro compito era quello di suscitare compassione negli adulti indigeni fino a spillar loro i quattrini da consegnare prontamente al padrone. Gli affitti comprendevano un particolare che rassicurava le famiglie con qualche scrupolo, che riguardava la salute del ragazzino, in cui il padrone si impegnava a curare il suo piccolo schiavo le prime due settimane di malattia a sue spese, per le seguenti sottraendone le spese dal salario. In realtà, come prevedibile alla luce dei maltrattamenti subiti, molti ragazzini si ammalavano, ma venivano in genere abbandonati a se stessi, senza un aiuto sanitario e senza assistenza di alcun altro tipo. Difatti, per evitare la morte della propria “merce” il padrone intraprendeva il lungo viaggio per le Americhe sempre accompagnato da un gruppo di 10-12 bambini, perché sarebbe stato rischioso intraprendere un viaggio così lungo (un mese) e pericoloso con un solo “lavoratore”.

I ragazzi che venivano portati all’estero in molti casi perdevano ogni contatto con la loro famiglia d’origine e con la loro vita normale, in genere questo distacco arrivava a tal punto che molti, terminato il lavoro, non sapevano più fare ritorno alle loro abitazioni, non ricordando più il loro cognome né il luogo dal quel provenivano.

Riassumerò qui una storia, probabilmente la più famosa, per rendere meglio l’idea di come la vita per questi giovanissimi individui cambiasse radicalmente.

Joseph, che nel 1870 si chiamava ancora Giuseppe, una notte viene rapito da casa e portato, insieme ad altri bimbi, prima a Napoli e poi in America, a New York. Da subito la sua vita cambia radicalmente, Joseph impara a chiamare l' uomo che l'ha portato in un paese sconosciuto "padrone" e viene mandato a mendicare per le strade con la paura di essere riempito di botte nel caso, la sera, torni con poco denaro. Pian piano inizia a suonare il violino e ad imparare nuovi trucchi per guadagnare in modo adeguato e, così facendo, evitare di essere picchiato. Un piccolo schiavo che il padrone teneva legato a sè con il duro fil di ferro della violenza. Ma Joseph un giorno non ce la fa più e scappa, si nasconde al Central Park e vi rimane per qualche giorno, finchè non viene scoperto da un guardiano che gli offre i primi soccorsi e, pian piano, ne guadagna la fiducia al punto da poterlo affidare ad una donna che vive in un cottage nel parco.

La faccenda diventa famosa, si fa simbolo della moderna schiavitù infantile, tanto da apparire anche sul New York Times nel 17 giugno del 1873.

Nasce così la figura dei "padroni", termine usato dai giornali in italiano, quasi a denominare una nuova specie di criminali. Una realtà di schiavitù vera e propria, in cui troppi bambini si sono ritrovati a vivere, venduti, affittati dai genitori o anche rapiti, nella seconda metà del XIX secolo.

 

 

Il vagabondaggio

La storia di Luigia Pasqualetti, una bambina di 13 anni di Graveglia, più volte imprigionata a Londra per vagabondaggio, è una delle tante storie, forse neanche la più crudele, conservate dell’archivio di stato di Genova. Due anni prima, nel 1863, dal Regio Console di San Francisco era giunta ad esempio la segnalazione del pietoso caso di Domenica Figone, ragazzina di 14 anni, di Varese Ligure, priva di ambo le braccia e le gambe, ceduta dai genitori ad un signore (un certo Deluchi Francesco, anch’egli di Varese Ligure) perché facesse il “giro d’America”, dividendo i guadagni. Maria Giuseppina Cioli scrive:”Pare che appena sbarcati ambedue si recassero per le strade accattando di porta in porta, fino a che quindici giorni dopo, la polizia li minacciò di arresto se non desistevano dall’intrapreso mestiere. Fu a questo punto che il Deluchi venne in Consolato, insistendo perchè io provvedessi alla Domenica Figone, soggiungendo già troppo aver egli fatto accompagnandola fin qui, ed essere obbligato ad abbandonarla dacchè il fratello di lei, lavoratore alle mine, non rispondeva alle lettere direttegli. Dubitando della veridicità di quest’individuo, che spesse volte si contraddiceva nelle sue asserzioni, volli verificare io la stessa cosa. Trovai che la Domenica Figone era una povera ragazzina di 14 anni, mutilata di ambo le braccia ed ambo le gambe, che il padre di lei aveva consegnato al Deluchi perché facendo il giro d’ America accattando, dividesse poi con lui il provente delle elemosina. Il fratello della Figone scrisse di poi alla sorella, che andò a raggiungerlo alle mine, e poiché il Deluchi mi aveva pertinacemente negato l’esistenza di un contratto fra lui ed il padre dell’infelice creatura così mi feci restituire da lui 130 dollari, che in quindici giorni egli aveva raccolto, e che io spedii tosto al fratello della Figone, esortando il Deluchi ad un lavoro più onesto e più confacente alla robustissima sua costituzione”. Sommersa dai casi tragici dei bambini/vagabondi e di adulti “condottieri” di mendicanti, nonché degli emigrati/disertori, l’emigrazione lavorativa di massa non ha troppe tracce in questo archivio. Filtrata attraverso l’ottica della Regia Prefettura, la cui attenzione si concentra sui casi che più preoccupano in termini di pubblico, quella che qui si trovava è piuttosto la “cattiva emigrazione” dei miseri alla ricerca di espedienti, dei disertori e dei vagabondi.

 

Il lavoro delle donne durante l’esodo migratorio

In quasi tutte le regioni di grande emigrazione si riscontra un aumento del lavoro femminile che va a sostituire quello degli uomini e che spesso veniva calcolato un terzo del loro. Dove l'emigrazione ha diminuito notevolmente la popolazione maschile, le donne hanno sostituito l'uomo anche nei lavori più faticosi sostenendo fatiche incompatibili col loro sesso, col fisico e colle funzioni della maternità e dell'allattamento. Giungono a portare pesi di 60-70 chili sulla testa. Eppure se si esaminano le statistiche del censimento si possono notare segnate cifre minime di donne addette ai lavori dei campi, mentre nelle stesse famiglie di coloni anche in buona condizione economica, ogni componente, appena è in grado di lavorare, concorre al guadagno comune.

In Abruzzo e Molise l'imprenditore agricolo sostituì largamente al lavoro maschile il lavoro delle donne. A ciò corrisponde spesso un aumento della mortalità infantile causata dall'eccessivo lavoro delle madri.

 

L’emigrazione femminile:

Molti altri nomi sarebbero da aggiungere a queste brevi note e, soprattutto, nomi femminili. Nella storia dell’emigrazione le donne hanno sempre rappresentato un ruolo importantissimo.

Si sa che nelle famiglie liguri di allora il primo a partire era, in genere, il primogenito, seguito a ruota dal secondogenito se il lavoro, trovato nelle Americhe, risultava sufficiente e offriva la possibilità anche agli altri fratelli di tirare avanti. Ma giunti a destinazione, trovata stabile dimora ed un lavoro sicuro, immediatamente richiamavano le mogli e i figli dal momento che la prima regola di sopravvivenza era costituita dalla sicurezza che trovavano all’interno della propria famiglia e nella cerchia dei parenti consanguinei.

Con idee confuse e con speranze ingenue, le donne partivano dai paesini lungo la costa e dalle vallate del Chiavarese per raggiungere i mariti in un’America ottocentesca e “primitiva” che lentamente si stava aprendo alle modernità e alle tecnologie dell’Occidente. Il viaggio per mare costituiva già di per se stesso una tribolata odissea che esse affrontavano con la forza delle risorse riposte e latenti nel temperamento proprio della donna ligure che fino a pochi giorni prima, nei comuni montani, si era dedicata ai lavori di casa e di stalla o a far merletti di filo non appena aveva deposto il grave fardello di ardesie tegolari che in bilico sul capo, attraverso ripidi sentieri, portava, dalle cave sui monti alla spiaggia di Lavagna. Ma ben più coraggio ci voleva, una volta sbarcate a New York, per affrontare l’interminabile viaggio in ferrovia, dall’Atlantico al Pacifico, fino a San Francisco dove risiedevano le numerose e ben avviate colonie liguri di pescatori, commercianti e agricoltori e dove sembrava ci fossero più possibilità di progredire sia economicamente che socialmente.

La prima ferrovia transcontinentale dell’Union Pacific fu inaugurata nel 1869 e molti erano i pericoli che affrontavano i viaggiatori di allora: assalti di pellirosse, scomodi compagni di viaggio come gli ex cercatori d’oro che, abbandonato il miraggio di grandi ricchezze, si erano trasformati in pericolosi avventurieri e vagabondavano da uno stato all’altro e, non ultima, la tragedia della fame.

In un lontano giorno del 1875 viaggiavano su uno di quei treni diretti all’Ovest due donne lavagnesi con un bambino. Un certo Agostino Sanguineti che si era sistemato a San Francisco, aveva chiamato presso di sé la giovane moglie che era partita accompagnata dalla cognata Maria Angela e che la famiglia le aveva messo al fianco perché l’aiutasse nel pericoloso trasferimento. Non si sa se anche il viaggio di questa Angelina fosse stato deciso tirando in aria una moneta come avveniva solitamente nelle famiglie liguri di allora, ma si sa per certo, ed ancora oggi l’avventura è raccontata dai pronipoti, che le due donne, parlando solo il dialetto e ignorando la lingua del posto, erano così intimorite e spaventate che non osando né muoversi né domandare, rimasero parecchi giorni senza mangiare e arrivarono a San Francisco talmente denutrite e malridotte che Agostino Sanguineti non le riconobbe. E non si può dimenticare un’altra figura di donna che partì giovanissima con la famiglia per Cincinnati nell’Ohio: suor Blandina Segale, al secolo Maria Rosa Segale nata a Cicagna il 23 gennaio del 1850, alla quale è dedicata una piazza di Cicagna, suo paese natale.

Sono testimonianze di profonda verità che non si dimenticano e che si possono consegnare, senza timore di cadere nel patetico, alla storia e alla letteratura di un’America che riuscì a trovare la sua identità grazie anche al ruolo e al buonsenso di queste donne, che amarono profondamente questa seconda patria.

 

Chi era suor Blandina?

E’ la domanda che ci siamo poste quando, arrivate nella biblioteca civica del comune di Cicagna,  G. Leverone, sfogliando alcuni libri riguardanti l’emigrazione delle nostre vallate, abbiamo trovato una locandina che per l’appunto citava l’inaugurazione di una piazza dedicata a suor Blandina. Subito le poche notizie riguardanti la vita di questa suora, riportate su quel piccolo foglio di carta, hanno acceso la nostra curiosità. Così abbiamo chiesto notizie alla bibliotecaria Carla Casagrande, che molto gentilmente, a grandi linee, ha incominciato a raccontare l’affascinante storia di questa suora originaria di Cicagna. Inoltre ci ha mostrato un libro che poteva esserci di grande aiuto,che è stato fatto nel 1998 da lei insieme ad altri collaboratori: D. Avrili, N. Becker, A. M. Converso, M. E. Ruggiero (con l’appoggio dei comuni di Cicagna, Lorsica, Favale, dei parenti di Suor Blandina, delle Suore di Carità di San Vincenzo dè Paoli di Cincinnati e di numerosi documenti rinvenuti nei polverosi archivi comunali e parrocchiali della Fontanabuona). Da questo libro, intitolato “Suor Blandina Segale: storia di una partenza e di un ritorno” (Edizioni Tigullio-Bocheroutius, 1998), abbiamo estrapolato e rielaborato le esperienze, le emozioni, le vicende che hanno segnato la vita di Suor Blandina, figlia di emigrati fontanini, e la storia della nostra vallata.

Forse una storia vera o una vecchia leggenda simile a quelle che nascono numerose quando si parla di persone famose, che la prima parola che Maria Rosa Segale, la futura suor Blandina, scrisse all’età di quattro anni sia stata “Gesù” e che, non contenta, la piccolina abbia aggiunto con un sorriso “Madre”.

Leggenda o realtà? Non è facile dedurlo dalle testimonianze che abbiamo, perché chi riferisce l’episodio è suor Therese Martin delle Suore di Carità di San Vincenzo de’ Paoli di Cincinnati, la quale nel 1947 decide di narrare per sommi capi la lunga vita della consorella, dalla nascita a Cicagna nel 1850 alla morte a Cincinnati nel 1941, ed inizia il suo racconto con la descrizione di questo avvenimento così significativo ed edificante.

Le notizie che suor Therese ci dà sono conoscenze preziose, perché basate sui ricordi che tante volte suor Blandina ripeteva alle consorelle, memorie tramandatele dai genitori e dai fratelli più grandi, a volte ammantate da un fascino di lieve imprecisione.

Suor Blandina, attraverso suor Therese, ricorda come il padre, Francesco Segale, padrone di due frutteti ben coltivati, soprannominato il “Signorino” dagli abitanti della Val Fontanabuona, un uomo tranquillo, distinto, sensibile, e come la madre Giovanna Malatesta, discendesse da una famiglia nobile, potente sin dal Medioevo.

Verrebbe spontaneo chiedersi perché allora avesssero deciso di emigrare in America, e la risposta è immediata e pronta. Suor Blandina era infatti solita ripetere: “Mio padre teneva segreto il nome dell’illustre famiglia di mia madre… perché quelli erano giorni di rivoluzione, in Italia.” una sorta di esilio, perciò, dovuto a necessità politiche e non economiche, in cui lo stato civile di figlia di genitori “incogniti” poteva diventare fonte di sussurrati nobili segreti.

Sul certificato di matrimonio, però, Francesco firma con una croce come la moglie, sui certificati di nascita dei figli è definito contadino illetterato che dichiara di non sapere scrivere e il suo nome non compare nell’elenco dei benestanti di Cicagna.

Per quel che riguarda Giovanna, poi, i certificati riportano per lei cognomi diversi: per il primogenito Bartolomeo e il secondogenito Giacomo Andrea è Malatesta, per Maria Maddalena è Segale, per Maria Rosa e per l’ultima bambina avuta in Italia Catterina è Casagrande. In tutti i certificati è sempre definita figlia dell’ospedale di Pammatone, insomma una trovatella, né d’altra parte ci sono tracce, in quel periodo, di problemi rivoluzionari implicanti dei Malatesta in Val Fontanabuona. Non è difficile pensare che Francesco dovesse essere una gran cara persona e che Giovanna fosse comunque una donna eccezionale, pronta a condividere con il marito i progetti e le speranze in un futuro migliore e i rischi di un viaggio verso un mondo pieno di incognite.

E’ così che nel 1854, poco tempo che Maria Rosa ha dato prova della sua precocità, Francesco e Giovanna lasciano la loro vallata insieme ai figli imbarcandosi sul brigantino “Silenzio”, partito da Genova al comando di Pasquale Antola.

Con loro viaggiano altri nuclei familiari, Cordano, Malatesta, Segale, Bacigalupo, Brichetto ed altri ancora, con cognomi tipici della Val Fontanabuona.

Sbarcano il 6 marzo 1854 a New Orleans. Da li il viaggio continua lungo il Mississippi e poi l’Ohio fino all’arrivo finale a Cincinnati.

Gli inizi non sono certo facili. Il particolare che stessero tutti a dormire in un’unica stanza in Canal Street ci rivela un periodo di dura povertà e di lotta tenace, a denti stretti.

Son sempre le note di suor Martin (e suor Blandina) a delineare ancor meglio il carattere di Giovanna, che con molta accortezza si preoccupa di trovare per i figli qualcuno che insegni loro l’inglese e si fa in quattro per pagare quelle lezioni.

Ma la prova decisiva dell’intelligenza e dell’apertura mentale dei coniugi Segale emerge dal particolare importantissimo che Maria Rosa, nel 1866, entra nelle Suore di Carità come novizia, insieme alla sorella maggiore Maria Maddalena, e li potranno completare gli studi ad indirizzo classico e musicale e specializzarsi nell’insegnamento.

Ciò dimostra che, in un periodo in cui l’analfabetismo era diffuso, la lungimiranza di Francesco e Giovanna nel costruire su solide basi l’avvenire dei loro figli, indica molto bene di che tempra fossero fatti.

I sacrifici non dovevano spaventarli e se dal banchetto di frutta ottenuto agli inizi grazie all’aiuto di un certo Novello, all’angolo fra Front e Sycamore Street, arrivano a metter su un negozio di pasticceria che permette loro nel volgere di pochi anni di comprarsi una casa, in West Fifth Street al n° 46 e di mettere in cantiere almeno altri tre figli, oltre a mantenere più che decorosamente gli altri cinque.

L’istruzione avuta assicura che la vocazione delle due sorelle è libera ed autonoma, e suor Blandina a 22 anni, dopo un tirocinio nelle varie scuole tenute dalle suore a Dayton e a Steubenville nell’Ohio, viene raggiunta da una brevissima lettera della Casa Madre di Cincinnati che le ordina di mettersi subito in viaggio, da sola, verso una nuova destinazione in terra di missione: Trinidad. La sua decisione viene contrariata da molti conterranei e non, che l’accusano di aver violato l’unità della famiglia; gli stessi genitori cercheranno di persuaderla ma lei partirà comunque.

Suor Blandina, non appena ha saputo di doversi recare da sola in terra di missione, ha deciso di tenere un diario-epistolario indirizzato a suor Giustina, sua sorella, con lo scopo dichiarato di buttar giù appunti per poterli poi rileggere e rivivere così con lei la sua vita nal West.

Il diario, come ogni diario che si rispetti, le serve per farsi coraggio, per chiarirsi le idee nel trascrivere quasi esorcizzandole le proprie paure e, registrando com’è riuscita a risolvere le situazioni particolarmente difficili.

Nel 1872 dunque la nostra suora arriva a Trinidad, un paesino che non è nemmeno sulle carte geografiche e che invece di essere vicino a Cuba, come aveva creduto quando l’aveva sentito nominare per la prima volta, si trova sulla pista per Santa Fe, nel Colorado occidentale, una zona che è stata dichiarata Territorio degli Stati Uniti nel 1861 e che ne diventerà Stato nel 1876. Il suo sbigottimento davanti al paesaggio desolato e alle casupole di paglia e fango che le sembrano rifugi per cani è grande.

Appena arrivata a Trinidad, in quel paesino che non soltanto non è sulla carta geografica, ma che ha un’unica casa degna di tal nome (casa Bianca, oggi trasformata in un “Pioneer Museum”), suor Blandina presa dalla sensazione di squallore e di forte sgomento, capisce che tutto ciò deve essere vinto e superato dall’efficienza ed eccola senza indugio all’opera. Come il solito riesce a partire da un esame attento dei particolari per arrivare ad una visione d’insieme ben chiara.

Si stupisce del fatto che in un mondo in cui sono a continuo contatto con messicani e con indiani che parlano lo spagnolo, le suore si permettano tranquillamente di non saperlo e comincia immediatamente a ripassare questa lingua che già conosce.

Visita subito le case dei messicani, poi le prigioni e scrive per la sorella si essere decisa a non indietreggiare dinanzi a nessun compito “perché troppo gravoso o ripugnante”.

Così a poco a poco entra nel cuore della gente del posto della quale annota gli usi e costumi non solo con simpatia umana, ma anche con la mente aperta della donna colta che vuole capire più che può di tutto ciò che ossserva.

A scuola riesce a conquistarsi gli studenti più riottosi, spesso più grandi e più vecchi di lei sfruttando il suo intuito, il suo buon senso; sente e vuol far capire loro che per lei sono tutti uguali, tutti amati profondamente, che sian orfanelli o figli di poveri contadini o di famiglie abbienti che fanno ricche offerte al convento.

Insegna a tutti a leggere, a scrivere e a far di conto, è inflessibile nell’esigere da tutti il rispetto dell’uno verso l’altro ed è sempre pronta ad intuire se il ritmo delle lezioni ha bisogno di un breve intervallo o di una partita a pallone per rasserenare l’anima e il corpo.

Organizza con un colpo di genio un “Vigilante club” fra i ragazzi più svegli e più grandi. Scopo del club è di farle rapporto su ogni caso di condizioni disagiate, familiari od individuali, per fronteggiarle e, se possibile, migliorarle.

Man mano che capisce l’ambiente che la circonda, le idee maturano sempre più decise ed eccola stabilire che quell’aula lunga, buia, piena di cimici, chiamata “scuola” non è assolutamente degna di tale nome.

E’ così che una mattina una delle più ricche Signore del paese la scorge sul tetto del suddetto stanzone mentre è intenta ad una vera e propria opera di demolizione con un massiccio piede di porco. La sorpresa e la curiosità sono grandi e in pochi momenti Suor Blandina riuscirà a persuaderla che Trinidad ha bisogno di una scuola che si rispetti.

Comincia così l’avventura della scuola “number one” passata alla storia perché suor Blandina riesce a far tutto senza un soldo.

Le famiglie più ricche faranno a gara per darle materiale e uomini, e si accorgeranno che non è facile accontentarla quando la vedranno lottare con gli operai per avere fondamenta in pietra. Sembra che porti nella memoria genetica il sapore e il calore delle case di pietra fra le cui pareti la sua gente è nata, vissuta e morta per secoli e secoli e arriva quasi accapigliarsi con l’intonacatore messicano che sa intonacare con il fango e non vuol saperne di usare calcina, sabbia e stoppa come lei suggerisce.

L’intonaco regge e la leggenda della scuola di Trinidad servirà alla costruzione di tante altre scuole, edificate in totale assenza di capitali, grazie alla sua testardaggine ed alla sua fede nella Provvidenza.

E’ arrivata da pochi mesi quando viene a sapere che Rafael, capo degli indiani Ute è sul sentiero di guerra. Non poco più tardi si troverà davanti quel capo pieno di fierezza e di dignità che le chiederà se vuole aiutarlo a seppellire suo figlio, il giovane Aquila, battezzato da preti cristiani.

Rafael la apostrofa “Nana, tu hijo està muerto” e suor Blandina nel tradurre le sue parole precisa come i missionari chiamino “figli” i membri della tribù. E’ subito evidente che il suo rapporto con gli indiani è tutto racchiuso in questa parola “hijo” ed eccola con la sollecitudine di una “mater dolorosa” a mandare i suoi Vigilante in aiuto a Rafael mentre prepara con le suore una stanza funebre. Quando ritornano con il corpo, suor Blandina si accorge che Aquila vive ancora, anche se è in coma. Lo veglierà fino alla morte, il giorno dopo, e poi ne curerà la sepoltura. Gli Ute sono in rivolta, ma nessuno disturba gli andirivieni dei familiari di Aquila: tutti sanno che sono sotto la protezione di suor Blandina.

La considerazione che la contea di Trinidad, Las Animas County, è molto vicina alla Kiowa County, dove nel 1864 è avvenuto il massacro di Sand Creek, (e nel 1878 nella Rio Blanco County, nel Nord-Ovest del Colorado, gli Ute si rivolteranno con estrema determinizione, massacrando il loro agente indiano Meeker e infliggendo dolorose sconfitte all’esercito), può darci un quadro abbastanza preciso della situazione in cui si trova la nostra suora, che avrà per le condizioni dei nativi parole di comprensione totale.

A Trinidad comunque non è che se ne stia a sognare con le mani in mano. La violenza le si presenta spesso in tutta la sua crudeltà, ma lei riuscirà a riempire ogni suo gesto con fermezza e decisione. Ed è così che riesce a dominare e a ricondurre alla ragione una folla inferocita che chiede il linciaggio di un uomo, fra l’altro padre di uno dei suoi alunni, che ubriaco, in un momento d’ira, ha sparato ad un altro. La ferita, pur essendo ad una gamba, si rivela mortale. La folla vuol fare giustizia sommaria, ma suor Blandina riesce a convincere il ferito, a perdonare il suo feritore davanti a tutti. Il ragazzo morirà subito dopo; l’assassino, rinchiuso in carcere, avrà un processo regolare e sarà condannato a dieci anni di lavora forzati.

E’ il settembre del 1876 quando, mentre dirige come arbitro una partita di pallone, uno dei suoi vigilante l’avverte che due degli uomini della banda di Billy the Kid si sono sfidati a duello in paese, uno è morto, l’altro ferito a morte è stato portato lontano dalle case e buttato in una capanna abbandonata perché muoia lontano da tutti.

Per quattro mesi suor Blandina curerà il ferito, andrà a trovarlo due o tre volte al giorno e riuscirà a nutrire non solo il suo corpo, ma anche la sua anima. Niente prediche, ma frasi scherzose e gesti pieni di affetto. Così il bandito comincia a confidarsi con lei, le racconta una vita di assassinii, di azioni tremende e lei lo ascolta serena. Un giorno il giovane l’avverte che il suo capo ha saputo che è ancora vivo e lo verrà a trovare, prima di andare a scotennare i quattro medici di Trinidad che si sono rifiutati di curarlo. Non c’è bisogno di dire che quando Billy arriva nella capanna, suor Blandina, per una davvero strana combinazione s’intende, dopo pochi minuti arriva anche lei e soppesa con occhi acuti il bandito. Il Kid le sembra un ragazzino in una banda di ragazzini. Quando la ringrazia per quel che ha fatto per il suo amico e si dichiara pronto a soddisfare un suo desiderio, suor Blandina decide di fidarsi del suo sguardo duro ed impenetrabile e gli chiede di risparmiare i quattro dottori. E Billy sa rinunciare alla vendetta per tenere fede ella parola data.

Sono passati pochi giorni da questo avvenimento quando un messaggio brevissimo arriva al convento: suor Blandina deve immediatamente trasferirsi a Santa Fe. Il tempo di salutare le sorelle, di prendere poche cose, e partire. Obbedire è la regola e suor Blandina parte con tanto rimpianto, ma anche con tanta curiosità di conoscere cose nuove.

La Villa Real de la Santa Fe de Francisco de Asis, abbreviato in Santa Fe, situata fra le montagne “Sangre de Cristo” alla fine della famosa pista soprannominata la “Jornada de muerto” (il viaggio del morto) per le difficoltà del percorso, non è un agglomerato di case di fango lungo la strada, ma già nel 1610 era la capitale della provincia spagnola del Nuovo Messico, con una storia complessa ed una situazione sociale e culturale ben precisa. Qui suor Blandina resterà dal 1877 al 1881.

A Santa Fe suor Blandina trova un orfanotrofio femminile il cui menù è a dir poco emblematico: la prima colazione prevede infatti pane e caffè allungato, la seconda pane ed acqua fresca, il pranzo pane e tè allungato. E, da vera figlia della Val Fontanabuona dai cui forni partiva il pane fragrante alla riviera di Levante, ha un moto di soddisfazione gioiosa nel sottolineare che almeno il pane è ottimo perché fatto proprio in casa. Suor Blandina sa però che non di solo pane vive l’uomo e si dà subito da fare affinchè il cibo migliori. Occorrono soldi, è chiaro! Do ut des! Purchè sia possibile integrare il menù delle orfane suor Blandina è pronta a dare lezione di tutto ai figli e alle figlie delle famiglie più ricche, e lo fa sacrificando la poche ore di riposo che le restano dopo il suo duro lavoro nell’orfanotrofio e nel piccolissimo ospedale che vi è annesso. Quando si trova agli estremi è disposa a tutto, anche a rubare. Un giorno l’avvertono che non c’è più niente da mangiare. Non ha mai voluto dare noia all’arcivescovo di Santa Fe, Jean Baptiste Lamy, ma questa volta suor Blandina scavalca il muro di cinta dell’orticello vescovile e comincia a sbarbare vigorosamente ciuffi di verdura che getta a due suore rimaste al di là del muro. Poi va a cercare Lamy e gli chiede di confessarla, ma Lamy saputo il suo peccato ordina che sia dato alle suore tutto quello che l’orto può offrire. Anche Lamy è un uomo concreto che ama la pietra e desidera che la cattedrale di Santa Fe sia in una pietra dal colore dorato, come le chiese della sua terra natia; come può non andare d’accordo con quella suora fontanina nata in una casa di pietra? E’ proprio il loro amore per la concretezza che li porta a concepire un’idea folle e suggestiva: perché non costruire una scuola femminile di tipo industriale ad indirizzo commerciale? E’ un sogno che, se realizzato, permetterebbe la liberazione, nel senso più completo del termine, di tante ragazze che non hanno avvenire. E’ un’idea che dev’essere realizzata con lo stesso capitale impiegato per la scuola di Trinidad: niente denaro. Lamy illustra ai fedeli il progetto: chiede a chi può di andare a donare qualche ora del proprio lavoro e a chi non può di mandare e pagare altri perché lo facciano in sua vece. Si presentano volontari, tanti, ed arrivano offerte sostanziose che permettono di far lavorare disoccupati, tanti. Conosce il colonnello Chavez, presidente del Senato del New Messico, come un uomo massiccio, con i baffi alla Vittorio Emanuele. E’ da lui che riesce ad ottenere fondi per l’ospedale nel quele lavora sino allo sfinimento. Eppure nei suoi appunti mai un lamento, mai una recriminazione, sempre la gioia del lavoro compiuto, l’arguzia nel descrivere i mille piccoli avvenimenti delle corsie e i suoi malati, e l’entusiasmo nel lavorare fianco a fianco in piena solidarietà con i dottori che l’aiutano e che appartengono a razionalità e fedi diverse.

Incontra ancora Billy the Kid, e anche qui scrive un’altra pagina godibilissima: Billy assale la diligenza sulla quale la nostra suora e alcuni uomini armati stanno viaggiando, ma appena la riconosce si allontana cavalcando sul suo focoso destriero. Il sorriso di suor Blandina si accentua, soddisfatto. Nel 1880, quando, dopo una lunga caccia all’uomo, Billy viene catturato e messo in prigione, suor Blandina va a trovarlo. Lo trova incatenato al suolo, ma il ragazzo la saluta con gioia, si scusa per non poterle offrire nemmeno una sedia, perora la causa del compagno che è nella sua cella e le assicura che troverà il modo di fuggire ancora. Fuori la folla vuole linciarlo. Come racconta H. J. Stammel nella prefazione del suo dizionario western “il Cowboy”: “quando i cittadini vollero linciare il fuorilegge, suor Coraggio salì su una cassetta di legno e, per usare l’espressione di un giornale dell’epoca, alla folla agitata passò i dieci comandamenti, come uno sraccio bagnato attorno alle orecchie”. Il Kid riuscirà a fuggire di nuovo e sarà ucciso in uno scontro a fuoco da uno sceriffo.

Nel 1880 il nuovo edificio scolastico è inaugurato, è stato costruito un mattonificio, aperta una cava e messa su una segheria, e pure in quei giorni frenetici l’attenzione di suor Blandina è tutta presa molto significativamente, da un moribondo che le ha chiesto di confessarlo e glielo ha chiesto perché solo con lei può farlo in italiano.

Nel 1881 Francesco Segale muore pochi mesi dopo che suor Blandina era ripartita da Cincinnati dopo il periodo del ritiro estivo.

La nuova destinazione che le è stata comunicata è Albuquerque, dove dovrà rimanere per un anno come insegnante di musica e dove invece resterà otto anni e farà un sacco di altre cose oltre ad insegnare musica. Albuquerque ha, si, la cattedrale dedicata ad un santo fiorentino, San Filippo Neri, ma non ha ospedali, non ha orfanotrofi, non ha comitati che si occupino dei diseredati. Ma la sua lunga permanenza ad Albuquerque sarà caratterizzata dal lavoro per i pellirosse. Vorrebbe poterli aiutare ad adattarsi ai cambiamenti di un mondo che per loro muta troppo velocemente e, come sempre, non vuole obbligarli a seguire la sua religione, ma auspica che studi regolari li portino ad una cultura pari a quella degli altri; dopo, ma solo se lo vorranno, potranno essere avvicinati alla dottrina cristiana. Così sola o in compagnia di qualche consorella comincia a girare per le riserve. Il Comitato Vigilante viene ricomposto e le offerte vagliate attentamente. Si offrono somme ingenti alle suore perché vadano ad insegnare la dottrina cristiana nelle scuole delle riserve, ma chi propone è un po’ troppo spiccatamente interessato e le suore rifiutano il denaro offerto per non essere coinvolte in situazioni poco trasparenti: sono disposte a lavorare gratis! La loro controproposta è accettata. Le suore perdono soldi, è chiaro, ma è altrettanto chiaro che se suor Blandina e le consorelle possono sembrare sempre a caccia di denaro, per averlo non vengonomai a compromessi. Nel 1883 è il capo di una tribù Apache a chiedere a suor Blandina di andare ad insegnare alle donne ed ai bambini della sua tribù e perfino l’Indian Bureau  fa pressione, ma la nostra suora non può farlo senza l’autorizzazione della casa madre e, anche se scrive che andare fra gli Apache sarebbe il massimo della sua felicità, accetta senza lamentarsi di rimanere al convento e continua a rendersi utile come può. Con una consorella andrà addirittura nel deserto del Mohave per rilevare le mancanze degli agenti indiani degli Hopi e degli Isleta. Conosce così a fondo le condizioni degli indiani che viene intervistata e poi si stupisce che consideri i pellirosse come esponenti di una civiltà diversa da quella bianca, ma con tradizioni ed usi da rispettare.

Nel dicembre del 1883 nel corso di uno dei suoi viaggi intorno ad Albuquerque si imbatte in un gruppo di operai della ferrovia che sono trincerati nel loro accampamento perché gli Apache sono sul sentiero di guerra. Il caposquadra le spiega che a mezzogiorno, quando alcuni indiani sono andati vicino al campo per raccogliere il cibo scartato dagli scavatori, uno di loro, per gioco, ha preso di mira un Apache e lo ha ucciso. Gli indiani hanno messo il loro compagno sul suo poni, si sono avviati verso la riserva e dopo circa un’ora sono tornati chiedendo la consegna dell’assassino e minacciando di uccidere tutti. L’assassino è già fuggito in un altro campo e mentre il caposquadra racconta, altri Apache si avvicinano e suor Blandina decide di incontrarli. Così si avvia verso di loro mettendo ben in vista il crocifisso del suo rosario. Gli Apache sono della stessa tribù che l’ha chiesta come insegnante e la nostra suora intravede una speranza. Cammina lentamente fino ad arrivare loro vicina, e guardando fermamente negli occhi il più anziano degli Apache riesce ad avere con lui un dialogo serrato e lo convince che l’assassino ha già lasciato l’accampamento. L’indiano vuole allora parlare con il caposquadra e due frasi ritmeranno tutto il lungo colloquio fra il pellerossa, il bianco e la suora che fa loro da interprete: “tu gli credi?”. “si, perché il mio amico non mi ha mai mentito”. Alla fine gli Apache si allontanano in caccia dell’assassino e suor Blandina consiglia al capoperaio di mandare ad avvisare gli altri campi che quel bianco dev’essere consegnato agli indiani, se vogliono evitare la vendetta di Geronimo e dei suoi.

La Nuova Accademia delle suore di Carità si erge ormai nella parte nuova del paese, ma nonostante questo suor Blandina non si sente soddisfatta perché manca una parte che possa servire espressamente da scuola superiore femminile. I fondi sono finiti e allora si rivolge ad un vecchio amico indiano, un Navajo Joe Apadoca, e lo convince a farle da aiutante. Sul retro dell’edificio costruiranno una bella stanza e la battezzeranno Scuola Siperiore Femminile Di San Vincenzo. Ci vorranno mesi: nelle ore sottratte al riposo i due lavoreranno fianco a fianco, il vecchio e robusto Navaho che brontola sempre perché non è giusto che una donna comandi un uomo in un lavoro da uomo, e la suora italiana, dagli occhi neri pieni di energia e di entusiasmo. Tutto ciò non le basta. Nell’86, sempre con l’aiuto di Josè e di un ex redattore di giornale, riuscirà a costruire due stanze che serviranno da scuola per gli indiani, vicino ad Albuquerque, ultimo dono prima di, come da ordine ricevuto, tornare a Trinidad.

Quando suor Blandina ritorna, tutto il convento è in fermento, per decreto statale è stato bandito un concorso per il quale tutti gli insegnanti, in maggioranza religiosi, indipendentemente dal numero di anni della loro carriera, devono sottoporsi ad un’esame insieme ai nuovi aspiranti all’insegnamento. La speranza, nemmeno tanto celata, è che le vecchie maestre, offese, non si presentino. Suor Blandina prende in mano la situazione. Si presenteranno tutte, lei in testa, lei che le scuole del Sud-Ovest le ha costruite portando mattoni e secchi di calcina, che se le è tirate su in tutti i sensi, anno dopo anno. Quando la vedono seduta in un banco, in mezzo alle consorelle, in mezzo alle altre aspiranti che sono per la maggior parte tutte loro ex allieve, il Presidente della commissione esaminatrice esclama: “c’è suor Blandina, non possiamo far nulla”. Tutte le suore supereranno l’esame, ma suor Blandina sa che non sarà lei ad impedire che il progetto di statalizzare tutte le scuole private e ad allontanare le suore si diffonda anche in Colorado.

Nell’estate del 1892 la chiamano all’Ufficio Scolastico di Trinidad e il presidente le comunica che potrà continuare ad insegnare nelle scuole pubbliche solo se lascerà il suo vestito: la divisa religiosa non è più ammessa nelle scuole. Suor Blandina guarda con fermezza l’uomo negli occhi e, con una risposta rimasta famosa, gli fa seccamente presente che per la Costituzione degli Stati Uniti lei ha diritto di portare la tonaca quanto lui i pantaloni. Nella stessa settimana riceve la sua nuova destinazione: deve andare a ricoprire la carica di preside nella scuola di San Patrizio, a Pueblo, in Colorado.

Nel 1922 il primo Centro cattolico di assistenza sociale per gli italiani negli Stati Uniti, viene fondato e diretto a Cincinnati dalla nostra fontanina. E’ il 1897 e, nella Casa Madre di Mount St. Joseph-on-the-Ohio, Madre Mary Blanche Davis superiore delle Suore di Carità è preoccupata, perché la sempre più numerosa comunità italiana sembra aver perso la fede dei padri. La libertà religiosa della nuova patria, la possibilità di aderire alle sette più disparate o addirittura di costruirsene a proprio uso e consumo confonde gli italiani che, nella lotta per sopravvivere, relegano il problema religioso all’ultimo posto, e forse si compiacciono nel sentirsi liberi dall’onnipresenza dei sacerdoti, tipica dei loro luoghi d’origine. Alla fine dell’Ottocento a Cincinnati gli italiani appartengono a due gruppi ben distinti: i genovesi, primi arrivati e stanziati ormai nella parte alta della città e i siciliani, affollati nei caseggiati della parte più bassa. Due entità ben distinte, che non si parlano e forse non sono nemmeno in grado di capirsi per i problemi offerti dai dialetti e dalle abitudini così diverse tra loro. I Metodisti avevano fatto del loro meglio per conquistarli, aprendo una missione per italiani affidata a due insegnanti americane e a due donne italiane le quali avevano fatto proseliti offrendo assistenza a madri e bambini. Madre Mary Blanche e l’arcivescovo Elder assistevano preoccupati a questo nuovo fenomeno quando suor Blandina e suor Giustina, richiamate ormai da tempo dalle loro attività nel Sud-Ovest ed impegnate l’una in una scuola maschile a Fayetteville e l’altra a Lansing nel Michigan, si ritrovano a Cincinnati per qualche giorno di riposo. Bastano poche parole fra le due sorelle e la loro superiora per far capire a tutte e tre che è l’ora di smettere di osservare e cominciare ad agire. Le due sorelle non perdono tempo cominciano ammediatamente ad andare a trovare gli amici di un tempo per un esame approfondito della situazione. Eccole a perigrinare da una casa all’altra, ad ascoltare i problemi di pecorelle smarrite che parlano la loro lingua e quando la ricerca si fa fruttuosa la loro gioia è riunire un po’ di compatrioti per recitare insieme il Rosario; vecchie tradizioni a lungo dimenticate che rivelano ancora il loro fascino nascosto. La necessità di agire incalza e la prima cosa che decidono di fare è aprire una scuola, composta da una sola classe, nella speranza che diventi un polo di aggregazione. La ricerca di un posto è frenetica, vista la scarsità del tempo a disposizione e quando il rettore della cattedrale offre loro un’aula completamente arredata nello scantinato dello Springer Institute, la scuola privata ai cui piani superiori le Suore della Carità insegnano già, la accettano e si preparano ad accogliere i nuovi alunni per lunedi 13 settembre 1897. La domenica precedente dai pulpiti delle chiese cattoliche viene diffusa la lieta novella, e dalla chiesa italiana, quella del Sacro Cuore di Gesù, padre Alussi, invita caldamente i genitori meno abbienti a mandare i loro figli nella nuova scuola. Tutto sembra perfetto, ma la mattina del 13 settembre nessun bambino si presenta e alle due suore non rimane altro, dopo alcune ore di inutile attesa, che chiudere la porta della loro aula. Pensare che si sentano sconfitte vuol dire non conoscere la tempra delle due sorelle Segale, le quali si recano immediatamente dall’arcivescovo per fare il punto della situazione: fra una scuola privata in uno scantinato come atto di carità ed un’organizzata scuola pubblica come diritto, è chiaro che l’orgoglio italiano ha fatto la sua scelta. Un insuccesso può diventare spunto positivo, se non si perde tempo nell’autocommiserazione. L’attenzione è moltiplicata e viene accolta con gioia la notizia che una dozzina di madri italiane accompagnate da numerosa prole ha invaso la scuola delle suore di Notre-Dame proprio la mattina del 13 ed ha cercato di spiegare, in un inglese un po’ approssimativo, di volere l’inserimento nelle classi dei loro pargoli. L’idea della scuola è dunque valida anche se dovrà essere migliorata, ma suor Blandina capisce che non è sufficeinte. Gli italiani stentano ad inserirsi nel nuovo paese del quale spesso non capiscono la lingua e le tradizioni e dal quale si sentono ignorati; così emerge la necessità di un luogo dove possono essere accolti, ascoltati, consigliati e, se necessario, aiutati anche economicamente. Sono giorni convulsi e nell’attesa di poter costruire qualcosa di grande le due sorelle decidono di concretizzare un progetto più piccolo, ma molto efficace. Chiedono aiuto alle ragazze italiane delle famiglie benestanti con cognomi liguri, che la dicono lunga sulla forza di legami antichi ( Sturla, Arata, Bricchetto ), e riescono con molte di loro ad organizzare una scuola domenicale che evidentemente ha subito successo perché alla fine di settembre annovera già 155 iscrizioni. Non solo. Il 27 settembre 1897 vengono poste la basi per una organizzazione che tuteli gli interessi degli italiani nel territorio. Suor Giustina ne viene eletta presidente e suor Blandina segretaria tesoriera. Quasi contemporaneamente il Rev. Albrink della chiesa della Santa Trinità decide di offrire agli scolari italiani due delle migliori stanze dell’edificio e di promettere, se non saranno sufficienti, anche l’uso del “Yung Men’s club”. E’ il centro sognato ed è qui che l’acume italiano appare in tutta la sua godibilità, perché oltre ad assicurarsi la diffusione della notizia durante le messe domenicali, le due sorelle usano come cassa di risonanza anche il mercato nella Six Street, il preferito dalle massaie italiane e così lunedì 11 ottobre 25 scolari italiani, più precisamente siciliani, irrompono nelle due aule. L’8 dicembre l’organizzazione diretta dalle Segale prenderà ufficialmente il nome “Santa Maria Italian Educational and Industrial Home”. A poco a poco accanto al Santa Maria prende corpo un’associazione di supporto, chiamata “Willing Workers” della quale fanno parte persone di diverse origini. Con il loro aiuto che vengono aperti corsi di cucito per le ragazze, seguiti da un corso per la madri e da un altro nell’East End per ragazze italiane e siriane. Per la primavera del 1898 le classi sono frequentate da ben 119 studenti ed una ispezione, mandata da chi evidentemente non vede di buon occhio le iniziative cattoliche, trova tutto perfettamente regolare. In giugno la cerimonia della Prima Comunione e della Cresima vede la chiese stipata di persone con le lacrime agli occhi. Le pecorelle italiane sembrano ormai abbastanza al sicuro da poter permettere l’apertura di altri progetti. Con molta lungimiranza decide di aprire corsi di economia domestica per le donne sposate, rendendosi conto che le condizioni miserabili in cui spesso versano le loro famiglie sono in parte dovute anche alla loro diffidenza a rapportarsi con la nuova realtà che le circonda, ma insieme a questi corsi offre loro la possibilità di affidare i bambini ad una sorveglianza sicura, così potranno non solo imparare tante cose interessanti ma anche rilassarsi e strigere nuove amicizie. Per la famiglie più povere organizza due settimane di colonia estiva per madri e figli, la “Fresh Hair Farm”, per ritemprare anime e corpi. Nel settembre 1900 la suore aprono la seconda scuola per italiani seguita da 50 studenti. Al suo mantenimento provvedono quei “Willing Workers”, molti membri dei quali accompagnano le suore nelle loro attività assistenziali negli ospedali e nelle prigioni. Avendo ormai ottenuto da molte scuole parrocchiali l’ospitalità gratuita nelle loro classi degli scolari italiani più indigenti, si lanciano nella realizzazione del vecchio sogno: la prima sede di proprietà che con l’aiuto dei Cavalieri di Colombo e delle loro mogli riescono ad acquistare in West Seventh Street. Finalmente le stanze possono servire per quel luogo di incontro tanto desiderato e le suore offrono i locali, compreso il loro refettorio, per permettere ai giovani di origine italiana di riunirsi tra loro. In giro nei quartieri malfamati dove in genere vanno ad abitare le nuove ondate di immigrati, le suore non possono fare a meno di dedicarsi anche agli ungheresi, ai rumeni, ai serbi e ad altri popoli cattolici dell’Europa orientale. Quando in città viene organizzato un Tribunale dei Minori e il Santa Maria Institute ne diventa socio fondatore, suor Blandina, che viene nominata funzionario incaricato di sorvegliare la condotta dei condannati in libertà vigilata, chiede ad una signora appartenente alla migliore società di Cincinnati, Mrs Fox, di accompagnarla nei tribunali per perorare la causa di ragazze a rischio, negli ospedali in cerca di ragazze traviate e al Riformatorio, per cercare di prendere soto tutela alcune delle carcerate. Dove non arriva suor Blandina, che a volte non viene vista di buon occhio per l’abito che porta, sono l’aspetto curato e i modi molto dolci di Mrs Fox a fare breccia e viceversa, ma la suora e la sua amica sanno che la vittoria di una è la vittoria dell’altra. Questa attività porta all’istituzione di un Tribunale Minorile ausiliario attraverso il quale suor Blandina e suor Giustina si perndono cura dell’istruzione di ragazze abbandonate, trovando loro un impiego. E’ nella “Ward O” la corsia dell’ospedale della città vecchia dove vengono curate le prostitute che una ragazzina di circa 16 anni un giorno ferma la suora e le racconta una storia simile a tante ancora oggi attuali. La ragazzina viene da un paesino di campagna. Di famiglia povera ha risposto ad un avviso sul giornale che prometteva un lavoro facile e ben remunerato in città. L’uomo che è venuto a casa sua ha fornito alla famiglia le garanzie più rassicuranti, e le ha promesso di impiegarla come dama di compagnia di una signora, ma in realtà l’ha consegnata alla tenutaria di postribolo. Non ci sono in pratica impedimenti a fuggire… perché chi conduce la “Maison” sa benissimo che le povere ragazze non avrebbero mai il coraggio di tornare a casa e di sporgere denuncia. La ragazzina è ammalata molto gravemente, capisce di avere ancora poco da vivere e prega suor Blandina di fare qualcosa per impedire che altre come lei cadano in preda di persone di quello stampo. Messala al sicuro, suor Blandina chiede l’aiuto dell’arcivescovo che le ordina di andare avanti. Con Mrs Fox, sotto la sorveglianza di un poliziotto privato che deve intervenire solo in caso di necessità e di un uomo di fatica del Santa Maria, suor Blandina si presenta al postribolo ed entra risoluta. Così questa robusta suorina in nero, con gli occhiali ben piantati sul naso va all’attacco della “Maitresse” palludata in rosso scarlatto e senza perdere tempo in preliminari le ordina di chiudere baracca e burattini in una settimana se non vuole essere mandata in galera. Di conseguenza Suor Blandina verrà denunciata e derisa dai giornali. Tutto il mondo legato ai grandi affari della prostituzione è in fermento, si arriva a temere per la vita di suor Blandina e la superiora le impedisce di proseguire. Affrontare questa cosa è davvero difficile questa volta. Ma le donne di Cincinnati non abbandonano l’impresa e un club femminile invita la suora a parlare di quanto le è successo. Anche questa volta il permesso di partecipare le viene negato. Ma l’invito significa che in città si parla dell’accaduto e che ci sono orecchi attenti all’ascolto. Qualche tempo dopo, invitata a parlare davanti alla delegazione legislativa della Hamilton ounty su una legge che riguarda i reparti maternità degli ospedali, con l’usuale intelligenza e franchezza riesce a riprendere l’argomento e, tra l’altro, citando la sua esperienza, a dare un quadro preciso delle modalità di reclutamento delle prostitute far le ragazze attirate in città con false promesse di un buon lavoro. I luoghi più a rischio sono soprattutto le stazioni ferroviarie dove agiscono come reclutatori indisturbati anche i conducenti delle auto pubbliche, pronti ad avvicinare le ragazze più spaesate ed ingenue. Le associazioni femminili cattoliche della città prendono l’iniziativa di riunirsi in una federazione con sede al Santa Maria Institute. Insieme alla conferenza della San Vincenzo de Paoli organizzano turni di sorveglianza nelle stazioni. Le ragazze in difficoltà vengono avvicinate ed aiutate a raggiungere la loro destinazione, quelle che non sanno dove andare vengono acconpagnate al Santa Maria, se sono cattoliche, o alla Associazione Cristiana per la Giovane (YWCA). La federazione apre il primo asilo nido cattolico in città, organizza corsi per sordomuti e la donazione di libri e riviste cattoliche per le biblioteche pubbliche e circolanti del territorio. Lavorare insieme diventa sempre più proficuo e l’esempio della federazione comincia a destare interesse anche fuori Cincinnati. Si chiede alle suore di Carità di illustrare il loro lavoro e di organizzare qualcosa di simile a Detroit, nel Michigan, a Long Island City, vicino a New York, a New Orleans. Nasce l’asilo diurno del “Santo Bambino”, inaugurato il 21 maggio 1918 dall’arcivescovo Moeller. Ben presto viene aggiunta al tutto anche una casa di una decina di stanze ed è un coronamento tanto a lungo perseguito: ora si possono raccogliere in un unico luogo i corsi serali per adulti, già operanti con i gesuiti di San Saverio e i corsi per ottenere la cittadinanza americana e quelli di alfabetizzazione vera e propria. E’ in quell’anno che addirittura viene aperto un centro di assistenza, fra la Symnens e la Burbank Street condotto da Maria Carter che offre agli italiani molte delle iniziative del Santa Maria ed in più un punto di distribuzione di latte ed un presidio medico pediatrico organizzato dal dipartimento salute di Cincinnati. Il centro non è riservato ovviamente agli italiani soltanto e dato che le attività delle Suore di Carità sono seguite ormai da persone di nazionalità molto diverse, le offerte ricevute permettono di aprire anche il “Kenton Street Welfare Center” che vede affluire clienti di origine irlandese e germanica. I Cavalieri di Colombo donano una palestra e fra i benefattori ancora cognomi italiani: Castellini, Muzzio, Rampoldi, Pedretti, Giangola, Venosa, Paolella, Fugazzi, Perazzo, Podestà, Rolandelli, il console italiano Ginocchio ed ovviamente il reverendo Chiotti, della chiesa del Sacro Cuore. Molti degli articoli che riguardano la vita del Santa Maria attribuiscono a suor Blandina quasi tutto il merito per aver saputo organizzare delle attività così meritorie; ella era una persona molto carismatica e determinata e quelli che l’hanno conosciuta sono pronti a testimoniare che era accompagnata da un fascino sottile ed irresistibile.

Nel 1920 suor Blandina parte per New Orleans, invitata a partecipare al National Convention of Social Work. Le viene chiesto di spiegare alle comunità religiose ed alle associazioni impegnate nel sociale i metodi che si sono dimostrati così efficaci a Cincinnati ed eccola mettere in luce la coralità del suo lavoro, l’importanza della responsabilizzazone dei laici. L’entusiasmo che riesce a comunicare all’auditorio, l’acutezza delle osservazioni, l’estrema professionalità che rivela, la modernità delle sue proposte che sono di trent’anni all’avanguardia rispetto alle realtà delle altre associazioni, le fanno riscuotere un successo enorme. Ormai è vicina ai 70 anni e comincia a ritirarsi nell’ombra, per lasciare spazio alle nuove generazioni, così si dedica alla famiglia.

Pochi anni dopo nel 1931, suor Blandina, con una colletta dei suoi ex scolari, viene mandata a Roma per la beatificazione della fondatrice del suo ordine.

Verso l’inizio del febbraio del 1941 suor Blandina comincia a spegnersi lentamente. Gli italiani di Cincinnati lo vengono a sapere e, la mattina prima di andare a lavorare e la sera prima di tornare a casa, passano dal convento per avere sue notizie. L’80% l’ha avuta come insegnante. La sera del 23 febbraio le consorelle sono intorno al suo letto nell’infermeria e stanno recitando le preghiere della Buona Morte, quando la sentono mormorare serenamente due parole chiarissime, in italiano: “Gesù… Madre”, un sorriso, un lieve volgere appena del capo, e capiscono che per lei è iniziata la tanto attesa eternità. E tutte ricordano, perché tutte sanno, e che sia storia o leggenda non è più così importante, che quasi un secolo prima, in una casa dalle pareti di pietra, al di là dell’oceano, in un paesini chiamato Cicagna, una bambina di quattro anni aveva tracciato su un foglio due parole, le sue prime parole scritte per bene: Gesù…Madre…l’alfa e l’omega della sua vita!

 

Storia della famiglia Canepa

A Iquique [...] nel 1862vi sarà fondata la casa commerciale dei fratelli Geronimo, Antonio, Francesco e Gianluigi Canepa, che divennero gli unici esportatori di frumento da Tacna, in Perù. Per affermarsi in tale campo essi dovettero affrontare varie difficoltà, fra cui quelle connesse alla guerra fra Cile e Perù, per l’occupazione delle isole Chincas( ricche- come è noto- di giacimenti di quel prezioso fertilizzante naturale), e le conseguenze del terremoto, che nel 1868 distrusse la città di Arica, con conseguente epidemia di febbre gialla. Dopo che furono stabiliti i confini definitivi fra Cile e Perù, la Casa Canepa ebbe due sedi( ad Arica e a Tacna, distanti fra loro 50 chilometri) operando nei due stati. Più tardi si occupò anche di sfruttamento di miniere di rame, in Cile, e nel 1899 le fu concesso dalla Banca Mercantile di Tacna di pagare i minatori con propria moneta del valore di un peso.(6)

 

Come ulteriore testimonianza della situazione della Famiglia Canepa riportiamo alcune parti di lettere scritte da Gerolamo Canepa e da sua moglie Carmelina C.

 

                                                                                            

                                                                                              S. Pietro di Rovereto 4 settembre 1897   “ Signor Andrea Laneri

 Tacna

La tristezza che mi a recato il vostro telegramma avvisandomi della malattia di Gerolamo è tanto forte che non o più momento di pace e passo le notti insonni pensando a tanta disgrasia tocatami.

Dopo consultato i medici che conoscono la malattia di Gerolamo vi risposi il tellegramma che spero aviate ricevuto cioè di cercare che si astenga assolutamente dalle bevande alcoliche quale unico ed efficace rimedio per la sua malatia ed è l'unica cura praticata nella casa di salute dove fu più volte ricoverato. Ed appena le sue condizioni di salute le permettano di farlo rimpatriare acompagnato dal figlio. avrei preferito anzi che dal figlio fosse accompagnato da una persona più anziana e più temuta, perchè conosco il naturale di Gerolamo che non vorrà certamente stare sotto il comando del figlio, ma considerato che in quei paesi difficilmente si troverebbe una persona seria di fiducia che volesse compagnarlo. Credetti bene anzi che solo lo accompagni il figlio il quale farà nuovamente rittorno a Tacna per seguitare a lavorare nella casa.

Ignoro se avrete rinnovata la società partecipe mio marito. Elli portò seco la procura che aveva fatto per spedirvela ma che poi disgraziatamente non si è messo in capo a voler venire lui in persona senza voler dar retta ni a me ni ad altri che li consigliava di non venire in America. nel caso che non avesse presentato detta procura oggi con questa lettera raccomandata vi spedisco una copia debitamente legalizzata colla quale potrete eseguire quegli atti convenuti e che per la sua esaltazione non avessi potuto adempiere [...].

Mi racomando caldamente caro cugino di aver pazienza della grande molestia recasionatavi dalla malatia di mio marito e spero che inconsiderazione alle nostre disgrazie vorrete come per lo passato favorirvi della vostra considerazione.

        Vi prego di fare i miei saluti affettuosi alla vostra sposa e figlie, mi dico la  vostra aff.ma cugina                                                                                           Carmelina C. in Canepa "

 

 

                                                                                      S. Pietro di Rovereto 21 ottobre 1900     "Caro figlio Andrea

Dunque visto che i tuoi buoni proponimenti hanno poco valore perchè, s'intende, non effettuati e visto che non mi scrivi più nulla. di più avendo anche sentito che continui a godertela a tuo modo, pensai di scriverti due righe io, dicendoti per davvero sai, che ora passa la burla così, per cui ti dico di procurarti da lavorare, in qualche modo, che altrimenti ti troverai a male partito,  perchè, e dico davvero sai, ho già scritto in Tacna di sospendere di pagare i conti per te. Di più gli dissi, come dico pure a te, che se ti fosse difficile trovare da lavorare in Valparaiso; dieti dicano di scegliere il paese, o meglio, quale parte dell'america, sulla costa del Pacifico però, ti piaccia andare, che ti sarà pagato il passaggio. Ti pare che basti così? Io credo che sarà più utile un fatto che non cento parole. Naturalmente tanto io che tua madre e le tue sorelle maggiori siamo molti amareggiati per la tua condotta, ma di certo, se non cambi vita,si sta preparando anche qualcosa di amaro per te. Sperando che i fatti sopra accennati ti siano di qualche utile ricevi i saluti di tutta la famiglia la quale gode buona salute tutta quanta mi dico il tuo addolorato padre

                                                                          Gerolamo Canepa" 

          

( i testi sono riportati fedelmente a testimonianza ulteriore della situazione culturale dell’epoca)

 

L’Emigrazione                                    

L’emigrazione ha segnato la storia mondiale e ancora adesso lo sta facendo. I miei nonni hanno deciso di andare via dalla Sicilia, allora democristiana, perché non c’era lavoro, nessun futuro per i giovani che non volessero fare i contadini sottopagati nei grandi latifondi. Il padre di mia nonna, che sapeva scrivere, leggere e far di conto, lavorava come fattore in un vastissimo podere di noccioli a San Piero Patti in provincia di Messina, e la sua paga mensile era di 500 lire e sette bocche da sfamare. Così i miei nonni hanno deciso di fare consapevolmente o inconsapevolmente questo grande salto nel vuoto e partire per il Brasile, prima mio nonno e poi mia nonna (dopo essersi sposati per procura), che fino ad allora aveva avuto un andamento altalenante, economicamente parlando. Da una sintesi ed una rielaborazione dei dati che ho preso dal sito www.liceoberchet.it emerge che il paese allo scoppio della prima guerra mondiale era incontestabilmente la principale potenza dell’America latina; all’inizio si dichiarò neutrale poi si schierò al fianco della Triplice Intesa. Seguì un breve periodo di prosperità, che fu interrotto dalla crisi del 1929 che fece crollare il mercato del caffé e del caucciù: ciò provocò la nascita del comunismo. Questa situazione portò il Brasile quasi alla rovina, finché il liberale Vargas costituì un governo dittatoriale provvisorio con lo scopo di centralizzare il potere. Nella seconda guerra mondiale il Brasile si schierò con gli alleati e al governo andò il social-democratico Dutra. Il decennio successivo è caratterizzato da una fase di benessere: nel 1950 ritornò al governo Vargas al quale fu imposto un programma democratico ma, pur rispettandolo, diede alla sua politica un carattere nazionalista e in seguito ad una protesta degli avversari politici, egli si suicidò. Gli succedette Filho e Kubitschek che dedicò ogni sforzo all’industrializzazione e alla costruzione della capitale Brasilia, di cui mia nonna aveva vinto un terreno.

Per fortuna hanno scelto quest’ ultimo periodo per trasferirsi là; infatti, c’era molta richiesta di manodopera, il lavoro si trovava facilmente anche perché quasi dappertutto non c’era bisogno della licenza o di pagare le tasse. Era un paese molto permissivo nel bene e nel male infatti quella brasiliana era una società dove non vi erano leggi che ostacolassero in qualche modo gli immigrati, ma d’altra parte se accadeva qualcosa nessuno si preoccupava o si interessava. Mia nonna a questo proposito mi ha raccontato un episodio che è sicuramente sporadico, ma a parer mio significativo: erano alla fermata del taxi ed improvvisamente un uomo di colore ha ucciso un uomo bianco, strangolandolo, davanti a tutti. Nessuno si è mosso ed ha detto niente, sotto lo sguardo attonito e spaventato dei miei nonni.

Mia nonna ha fatto uno sforzo a raccontarmi la sua emigrazione, non è un argomento di cui parla volentieri ma sa benissimo che se fosse rimasta in Sicilia e non avesse lasciato il padre che amava tanto, non avrebbe potuto farsi una famiglia e cambiare vita e lo stesso mio nonno.  

 

Intervista A Paola Santa Marchello (02/11/1936) S. Piero Patti (Me) E Antonino Amico (29/12/1925) Librizzi (Me).

 

Quando, dove hai deciso di emigrare e perché?

Ho deciso di emigrare in Brasile nel 1955 e poi subito dopo in Liguria nel 1959 per cambiare vita e avere una sistemazione adeguata per formare una famiglia.

Chi c’era ad aspettarti in Brasile?

Mio marito e i suoi zii: Nina e Giacinto.

Quanti anni avevi?

Avevo 19 anni.

I tuoi genitori volevano lasciarti andare?

Mia mamma era contraria perché pensava che fossi troppo lontana, mio padre invece era favorevole perché voleva che mi creassi una sistemazione.

Eri da sola?

Si, mio marito era già in Brasile da qualche mese, i miei fratelli mi hanno accompagnata in treno alla stazione di Napoli dove poi mi sono imbarcata per San Paolo. Durante il viaggio in nave, che è durato all’incirca 15 giorni, ho fatto amicizia con una famiglia italiana (marito, moglie e due figlie) e ho passato il tempo con loro. Non li ho più visti… il Brasile è molto grande. 

Quanto costava il biglietto?

Non mi ricordo, ma molto.

Dove abitavi?

A Sant’Amaro, cittadina della periferia di San Paolo, dalla quale distava circa 25 km. Alloggiavo in un casa vicino agli zii di mio marito: era piccola, aveva una camera sola, una cucinina e una sala molto piccola. Sono rimasta incinta, quasi subito, così ci siamo trasferiti in una casa sempre vicino ai parenti, ma un po’ più grande.  

Nel paese c’erano molti immigrati?

No non molti, c’erano molti italiani, ma anche giapponesi, turchi, un po’ tutte le razze. Sulla nave c’erano immigrati di tutte le razze.

Avevi dei soldi quando sei partita?

Si, quelli che mi avevano dato i miei genitori e quelli che mi mandava mio marito per posta.

Che lavoro faceva tuo marito in Brasile? [ A.A]

Prima che arrivasse mia moglie avevo comprato un banco di scarpe sul mercato di San Paolo, soltanto che era molto dispendioso perché bisognava pagare i mezzi di trasporto, le scarpe, le tasse e un camion che trasportava le scarpe invendute in un deposito.

Poi ho deciso di venderlo ricavando 4000 cruzero e sono andato a lavorare all’aeroporto di San Paolo come barbiere. Ero in proprio, ma pagavo l’affitto del locale che occupavo. Dentro all’aeroporto c’erano dei negozi grandissimi e ognuno si gestiva il proprio. Poi arrotondavo facendo il barbiere in una grande casa di riposo per anziani, gestita da una famiglia di Rapallo, che avevo conosciuto in Brasile.        

Guadagnava bene?

Si, abbastanza.

A qualcuno dava fastidio farsi tagliare i capelli da un italiano immigrato?

No, c’erano tutte le razze all’interno dell’aeroporto: c’era l’italiano, il francese e l’inglese un po’ di tutto.

Una volta ci sono stata all’aeroporto di San Paolo: mio marito si era dimenticato a casa la cappa, non avrebbe potuto lavorare senza perché doveva avere la divisa, così nonostante non sapessi parlare molto bene il portoghese, abitassimo abbastanza lontano e avessi mia figlia piccola, ci sono andata. Quando sono entrata sono rimasta molto colpita, perché è grandissimo, molto moderno e diverso dall’Italia e dalla Sicilia. Mio marito lavorava al piano superiore e quando sono arrivata ho chiesto come meglio potevo dov’era il Signor Amico. Allora le persone a cui ho chiesto sono andate ad avvisarlo che c’era la sua “mujera”, lui si è affacciato dal piano superiore e quando mi ha visto è rimasto stupito.      

Come vi spostavate in Brasile?

Lì c’erano già i pullman a due piani, ma alla fermata di questi si potevano prendere dei taxi in comune con altre persone, in modo da dividere la spesa, così era più comodo e più economico.  

Tuo marito era già lì da qualche mese, tu hai avuto difficoltà ad inserirti nella società?

Subito si, ma ero molto giovane e quindi ho cercato di inserirmi abbastanza. Quando ho avuto mia figlia poi, mi sentivo più forte e più responsabile perché dovevo proteggerla, accudirla e difenderla. Ero sola, mio marito lavorava a San Paolo e quindi non faceva in tempo a tornare a casa per il pranzo e poi a riaprire il negozio, così ci vedevamo direttamente la sera. La mia padrona di casa, una signora portoghese, che si chiamava Donna Concepsion, era molto brava e mi trattava come fossi sua figlia. Tutta la sua famiglia era molto solidale con me perché mi vedevano che ero sola, giovane e già madre e questo mi faceva sentire tranquilla.

Avevo molta nostalgia dell’Italia e della mia famiglia, soprattutto.

Vi scrivevate?

Si a volte si. Una volta è venuto a trovarmi a Sant’Amaro un mio compaesano che mi ha portato delle cose che mi avevano mandato i miei genitori e io mi sentivo quasi come se fossi a casa. Poi è venuto a salutarmi perché andava a vivere in un’altra zona di San Paolo. Avevo molta nostalgia: una volta sono uscita per andare a comprare al mercato con mia figlia e ad un certo punto ho visto un signore che assomigliava a mio fratello, era impossibile che fosse lui era la nostalgia che mi giocava dei brutti scherzi, ma mi sono messa a chiamarlo, ma ovviamente non si è girato.

Avevo molta nostalgia ma ho sempre cercato di reagire, accudendo la mia famiglia e poi quando mia figlia è cresciuta ho incominciato a lavorare quando lei dormiva.

Che lavoro facevi?

Avevo la macchina da cucire in casa e facevo delle camicie. Mio marito quando era libero andava a prenderle in una ditta turca a San Paolo e poi gliele riportava pronte.

Perché avete deciso di tornare in Italia?

Io stavo male a causa del clima tropicale, un po’ per la nostalgia, poi le cose non stavano andando molto bene. Per fare fortuna in Brasile, dovevi decidere di rimanere tutta la vita lì, non si poteva tornare in Italia ricchi. Io avevo vinto un terreno, dove poi hanno costruito la capitale del Brasile, con un concorso radiofonico per gli italiani all’estero per invogliarli a starsene lì: bisognava indovinare una canzone di Natalino Otto e io per scherzo ho risposto e ho vinto. Abbiamo deciso di venire in Italia quando mia figlia aveva due anni e mezzo.

L’hai venduto questo terreno?

Non l’abbiamo venduto perché non l’ abbiamo nemmeno accettato. Io e mio marito siamo andati a San Paolo e i responsabili di questo concorso ce lo hanno fatto vedere sulla carta geografica senza però sapere di preciso com’era fatto e dov’era, ma per poterlo avere bisognava pagare una cifra, così abbiamo rifiutato.

Non avete guadagnato molto?

No, non molto. Mio marito per stare più vicino alla famiglia e per non pagare i mezzi aveva smesso di lavorare all’aeroporto e aveva comprato un negozietto a Sant’Amaro. Lavorava bene perché lì di tasse non se ne pagano.

La moneta brasiliana era il cruzero, che in Brasile valeva, ma nel fare il cambio con la lira perdeva valore così abbiamo deciso di comprare qualcosa da vendere qui in Italia: oro, caffè e pepe.

Purtroppo però non siamo riusciti a portare in Italia niente, perché alla dogana ci hanno sequestrato tutto, lasciandoci solo quel tot. a persona previsto dalla legge. Pensavamo di farcela, mio fratello in Italia lavorava in polizia e magari avrebbe potuto intervenire lui facendoci passare, ma non ci siamo riusciti.       

Avete notato atteggiamenti razzisti nei brasiliani?

No, abbiamo trovato sempre brave persone. Oltre a Donna Concepsion gli altri vicini di casa erano molto gentili con noi, sia perché avevo una bambina piccola, sia perché avendo loro quasi tutti dei parenti italiani, si ricordavano qualche parola e così riusciamo a parlare, un  po’ in italiano e un po’ in portoghese.

Ho conosciuto una signora spagnola , Donna Anna, che aveva due figli e quasi tutti i giorni ci veniva a trovare per vedere la bambina.  

L’emigrazione ha risolto i vostri problemi?

Li ha risolti momentaneamente, restare lì per sempre non era un nostro obiettivo e così siamo tornati in Italia.  

Cosa facevate in Italia?

Mio marito si è aperto un negozio di barbiere con i soldi che avevamo e quelli che ci hanno dato i miei genitori, sempre facendo degli enormi sacrifici, ma noi volevamo sistemarci in Italia e farci una famiglia. 

Perché siete venuti proprio a Chiavari?

Prima volevamo fermarci a Genova, dove abitava mio fratello, ma trovare una sistemazione era un po’ difficile. Così siamo andati a Chiavari per andare a trovare l’altro mio fratello e ci è piaciuta come cittadina, c’era una possibilità di sistemarci in una camera ammobiliata e dal nulla abbiamo incominciato a costruirci una nuova vita. Poi ci hanno affittato una casa molto bella in Via Raggio, mio marito continuava a fare il barbiere e io cucivo in casa dei vestiti per una ditta di Genova. Poi ho avuto altri due figli e alla sera lavoravo perché di giorno dovevo badare a loro. Ci sono stati molti sacrifici ma anche molta buona volontà. Quando i miei figli sono cresciuti ho incominciato all’ospedale di Lavagna, partivo molto presto da casa così dovevo preparare il pranzo prima e la sera ero tutta per la famiglia. Era mio marito che si occupava dei bambini quando uscivano da scuola, poi tornavo al pomeriggio e lui andava in negozio.

Poi è stato tutto diverso perchè ad entrare in casa erano due stipendi non più solo quello di mio marito. Abbiamo cambiato casa perché quella in Via Raggio era molto bella ma d’inverno era fredda visto che non c’era il riscaldamento ma solo una stufa a legna in cucina. Così ne abbiamo messo una anche in sala e quando è stato il momento ci siamo trasferiti in affitto in Via S. Chiara.           

Quando sei rimasta incinta in Brasile, eri felice per l’arrivo di tua figlia, ma non eri preoccupata per i soldi?

Io ero felice perchè volevo avere dei figli, farmi una famiglia. Mi sentivo responsabile ma felice.

Dove hai partorito?

Mi hanno ricoverata alla Maternità Materasso una clinica fondata da una famiglia italiana. C’erano per lo più italiani ma anche altre razze. Si trovava a San Paolo, nel mio paese non c’erano ospedali. Mio marito non è potuto entrare in sala parto, non si poteva. Ho dovuto pagare perché in Brasile non c’era la mutua, come oggi, se stavi male dovevi pagare.   

Alla luce di quanto mi hai detto, l’emigrazione ti ha cambiato la vita?

Si, moltissimo, mi ha fatto maturare tanto, io volevo trovare il modi di formarmi una famiglia, di farmi una nuova vita. Ho avuto una famiglia alle spalle con tutti i pro e i contro, ognuno aveva il suo carattere, ma mio padre era una persona meravigliosa e mi ha sempre appoggiato “nella mia emigrazione”.  

Se tu tornassi indietro lo rifaresti di nuovo?

Si, rifarei tutto quello che ho fatto, giusto o sbagliato. Se hai molta buona volontà e spirito di sacrificio riesci a raggiungere quello che vuoi.

Hai avuto difficoltà ad inserirti qui in Liguria?

In Brasile la mentalità era molto aperta, San Paolo è una città molto grande. Quando siamo arrivati qui la mentalità era più chiusa, nonostante Chiavari fosse già una cittadina (c’è anche adesso a volte) ma io non ci ho mai dato importanza. Le persone che hanno una mentalità chiusa sono solo ignoranti: alcuni non mi salutavano di proposito, all’inizio ci rimanevo un po’ male, ma a volte i liguri sono un po‘ burberi.  

I negozianti si fidavano a farti credito?

Si, quando andavo a comprare il pesce, mentre portavo i miei figli all’asilo, è successo che mi dimenticassi i soldi a casa o magari che non li avessi proprio (non penso sia una vergogna dirlo) e i negozianti mi facevano credito. Anche il macellaio, mandavo mio figlio con un biglietto e poi passavo a pagare quando potevo.

Ai tuoi figli hai sempre parlato in italiano, non nel tuo dialetto di origine, in un certo senso hai voluto dimenticare la tua terra che rappresenta in un certo senso la tua vita passata?

No, l’ho fatto solo per aiutarli ad inserirsi a scuola, con i compagni, con la società.

Pensi che sia giusto che una persona sia costretta a lasciare la sua terra, la famiglia per i soldi?

No, ma se dove si nasce non c’è la possibilità di una vita diversa allora si. Ma ora i tempi sono cambiati ora è dall’estero che vengono in Italia, non più il contrario. L’emigrazione che ho fatto io è diversa da quella di oggi perché c’è più cultura: i ragazzi vanno tutti a scuola è cambiata la mentalità, la vita è progredita, si è evoluta. 

Quando tu sei arrivata in Brasile la polizia vi ha perquisito, vi hanno fatto controlli speciali?

No, ci hanno fatto i controlli di routine. Quando al tg vedo gli sbarchi di clandestini a Lampedusa provo pena per quelle persone ma io non mi identifico in loro perchè noi non eravamo così. Noi siamo emigrati per il lavoro, loro per altri motivi.

Perché avete scelto proprio il Brasile?

È capitata l’occasione che ci fossero i parenti di mio marito, altrimenti si andava da un’altra parte. I mie parenti sono andati in Australia perché mio zio è stato prigioniero lì quando era carabiniere e ha deciso di rimanere. In un certo senso si sceglie a caso.

 

La Storia Di “Fila”

“Fila” abita a Chiavari ed è giunta qui dalla Sicilia.

Le abbiamo preparato un’intervista per cercare di capire e immedesimarci per quanto possibile nella sua storia.

1) In quali anni si è trasferita?

Mi sono trasferita nell’agosto 1959. La mia è stata una scelta piuttosto obbligata perché avevano proposto a mio marito una “carica” più alta nelle Ferrovie dello Stato. Dovevamo trasferirci a Chiavari. Ci sembrava un miracolo l’arrivo di questa notizia e nel giro di un mese eravamo già pronti per affrontare il viaggio.

2) Da dove è partita?

Io e la mia famiglia (i miei figli di due e sette anni e mio marito) siamo partiti da S. Piero Patti, Messina, e giunti fino a Chiavari facendo tappa in un paesino chiamato Sori. Sapevamo che i viaggio era piuttosto lungo e che ci avrebbe portato dei disagi soprattutto avendo due figli così piccoli.

3) Quale mezzo ha utilizzato per spostarsi?

L’unico mezzo che abbiamo usato è il treno perché mio marito, lavorando come ferroviere, ha ottenuto un trattamento di favore. Il costo del viaggio si è notevolmente dimezzato dandoci la possibilità di intraprenderlo.

4) La sua scelta le avrà sicuramente portato dei disagi, può raccontarci le sue emozioni?

Durante il viaggio avevo molte paure, molte delle quali erano dovute alle esigenze dei miei figli. Ero anche triste perché ho dovuto lasciare la mia terra dove ho passato parte della mia vita e pensavo ai miei genitori che erano comunque anziani, in particolar modo a mio padre che non approvava la nostra scelta.

5) Come hanno affrontato il viaggio i  suoi due figli piccoli?

Il viaggio è stato pesante ed i miei figli avevano tante esigenze dovute all’età e alle abitudini che è difficile cambiare: mangiano ad un certo orario; fanno il sonnellino pomeridiano nel loro lettino ed hanno tanto bisogno di giocare, cose impossibili su un treno.

6) Com’erano le condizioni igieniche sul treno?

Io avevo un posto privilegiato su quel treno ma posso affermare che non vi erano buone condizioni igieniche, d’altra parte non si hanno mai le comodità di una casa in un vagone letto! Comunque ho superato anche questo, non mi facevo prendere dallo sconforto e pensavo che presto questa agonia sarebbe finita.

7) Ha detto che questo viaggio ha segnato particolarmente la sua vita e quella della sua famiglia, se potesse tornare indietro ripercorrerebbe tale strada?

Si, questo viaggio lo ricordo benissimo  e ricordo anche il profumo delle lenzuola delle cuccette. Come tutti i viaggi ci sono state delle complicazioni, soprattutto in quegli anni,  però sono pronta  a rivivere tutto, perché la mia vita da quel giorno è cambiata in meglio.

8) Abbiamo notato, dal suo racconto, preciso e dettagliato che era molto legata alla sua terra di origine, vi ha mai fatto ritorno dopo il suo trasferimento?

Lo ero come  qualsiasi cittadino è legato alla sua città, dove è nato,  ha visto crescere i suoi figli e ci sono i ricordi della propria vita vissuta lì fino alla partenza! Si vi ho fatto ritorno più volte durante l’estate perché li avevo i miei genitori e la mia famiglia. Facciamo il conto alla rovescia per tornare a S. Pietro Patti. I miei figli meno, però, perché a Chiavari, si può dire che sono cresciuti e non hanno ricordi della Sicilia.

9) Si è integrata bene con la popolazione chiavarese?

Si, i chiavaresi sono aperti, non come i siciliani, però ho trovato persone che ci hanno fatto integrare con loro.

10) Aveva dei problemi ad esprimersi in italiano senza usare il dialetto siciliano?

Io parlavo solo o almeno quasi ed esclusivamente il dialetto siciliano. Ho fatto solo la quinta elementare, una frase facile ero in grado di formularla, ma a volte mi trovavo in difficoltà, soprattutto con alcuni termini che in Sicilia si dicevano solo in dialetto.

11) Oggi, farebbe volentieri ritorno alla sua amata terra, dove lei e la sua famiglia avete trascorso la giovinezza?

Si, ma non è il  mio sogno nel cassetto! Ormai …  troppi anni da S. Pietro, non mi reputo una siciliana ma una chiavarese. Pensare che stento a ricordare il dialetto siciliano, anche se non ho mai imparato il genovese!

12) Ha dei parenti ancora vivi o qualche eredità al suo paese natale?

No, non ho né parenti e né eredità. I miei genitori sono morti ormai quasi vent’anni fa ed anche i miei fratelli si sono trasferiti a Chiavari facendo diverse tappe per il mondo. Come dicevo prima mi reputo una chiavarese come i miei figli.

 13) Le capita mai  di pensare ai momenti che ha dovuto affrontare in quegli anni così duri?

Si, penso spesso ad un particolare del viaggio: quando siamo saliti sul treno da S. Pietro e mio marito mi confortava dicendomi che da quel momento avrei potuto vivere meglio e che i nostri figli avrebbero potuto frequentare ottime scuole.

14) Se potesse farvi ritorno, anche solo per un breve periodo di tempo, dove si recherebbe?

Mi recherei nel centro di S. Pietro, più precisamente alla Chiesa di S. Maria dove mi recavo nei momenti di tristezza e sconforto e dove tutti gli abitanti del posto si radunano.

 

La Storia Di “Netta”

Netta abita a Philadelphia, negli Stati Uniti e vi è emigrata dal Molise.

Le abbiamo inviato un’intervista via a-mail per cercare di capire e immedesimarci per quanto possibile nella sua storia.

1) In quali anni si è trasferita e perché?

Mi sono trasferita nel 1956. Ero sposata da poco più di due anni ma le cose non andavano bene a causa della mancanza di lavoro:eravamo costretti a vivere coltivando le piccole terre dei miei genitori e decidemmo di tentare la fortuna.

2) Con che mezzo avete fatto il viaggio e perché proprio quello?

Abbiamo viaggiato in nave perché a quel tempo era l’unico mezzo per raggiungere l’America e perché alcuni compaesani ci avevano offerto due biglietti a buon prezzo.

3) La sua scelta le avrà sicuramente portato dei disagi, può raccontarci le sue emozioni?

Prendere questa decisione è stato sicuramente molto difficile perchè dovevo abbandonare la mia famiglia e la mia terra senza conoscere in alcun modo cosa mi aspettava.

4) Come è stato il viaggio?

Il viaggio è stato interminabile,la nave era molto affollata e soprattutto negli ultimi giorni mancava il cibo e scarseggiava l’igiene.

5) Una volta arrivati in America cosa avete fatto per vivere?

Mio marito era un geometra e grazie ad alcuni compaesani che vivevano lì da qualche tempo ha subito trovato un lavoro come muratore. Ma la fortuna ci ha assistiti e dopo molti sforzi siamo riusciti ad aprire un’impresa edile grazie alla quale ci siamo costruiti una villa con un grande giardino. E ora è portata avanti dai miei figli.

6) Dal suo racconto abbiamo capito che era molto legata alla sua terra, vi ha mai fatto ritorno?

Ho sempre avuto il desiderio di tornare ma l’ho fatto solo dopo la morte di mio marito. Adesso torno al mio paese quasi tutti gli anni e vado da mio fratello che durante le vacanze viene raggiunto dai suoi figli e nipoti. Ma qui ritrovo anche molte altre persone a me care che hanno fatto parte della mia vita quando ci vivevo.

7) Aveva difficoltà di comunicare in inglese?

Si moltissime, anche perché non so nemmeno parlare bene l’italiano, la mia lingua fino ad allora era sempre stato il dialetto. Anche ora dopo così tanti anni non so parlare l’inglese perfettamente.

 

 

 

Bibliografia

 

-         A.A.V.V., Università degli Studi di Genova, Facoltà di Scienze Politiche, a cura di, “L’emigrazione dalla Provincia di Genova. La parte orientale della provincia”, tomo IV, Patron Editore Genova, 1983-1986

-         Baricco A., Novecento, Feltrinelli Milano, 1994

-         Bruschi R., Lebbroni S., Ritratto di Cogorno, l’antico feudo dei Conti Fieschi attraverso le sue memorie storiche, De Ferrari Editore Genova, 2000

-         Casagrande, C., Avrili, D., Becker, N., Converso, A. M., Ruggero, M. E., “Suor Blandina Segale: storia di una partenza e di un ritorno”, Edizioni Tigullio-Bacheroutius, Rapallo, 1998

-         Crupi, P., 1870-1980, Nuove Edizioni Barbaro, Bologna 1994

-         Ferro, G., “L’Emigrazione nelle Americhe dalla provincia di Genova”, La parte orientale della provincia – volume III, Patron Editore, Bologna, 1991

-         Levi C., “Cristo si è fermato ad Eboli”, Einaudi Torino, 1945

-         Porcella, M., “La fatica e la Merica”, Sagep, Genova; 1986

-         Revelli, N., ”Il mondo dei vinti”, Panfili, Cuneo, 1946

-         Stella, G.A , “L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi”, RCS Libri, Milano, 2005

-         Viarengo, G., “Da Chiavari al mondo”, “Vagabondi Birbanti Emigranti”, 2004, Grafica Piemme, Chiavari, 2004

 

Articoli di giornale:

-         Massimo Caputo, Corriere della Sera, 24 agosto 1956

-         Editoriale, Corriere della Sera, 9 agosto 1956

 

 

Siti internet:

 

-    www.emigrati.it

-         www.tragol.it

-         www.vald’Aveto.net

-         www.alef-fvg.it

-         www.liguri.net

-         www.rizzoli.rcslibri.it/stella

 

- Enciclopedia, “Il milione”, Nicaragua, 1959

 

- Enciclopedia universale “Rizzoli- La Rousse”, V volume, Rizzoli editore, Milano, 1967;

- Siti internet

- Enciclopedia Motta, ed. Federico Motta, Milano, 1990

-         Massimo Caputo, Corriere della Sera, 24 agosto 1956

-         Editoriale, Corriere della Sera, 9 agosto 1956

 

Autori:

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[1] Baricco A., “Novecento”, Feltrinelli, Milano, 1994 pp.11-12

[3] il periodo di tempo considerato va dal 1866 al 1920 e prende in esame esclusivamente dati ufficiali compresi i censimenti del 1881 (primo periodo), 1901 (secondo periodo) e 1911 (terzo periodo).    

[4] Cfr. G.A. Stella, “L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi”, RCS Libri, Milano, 2005.